Storie - Parte 1
Parte 1 - INFANZIA E GIOVINEZZA
1. Paulin
a scuola, tra monarchia e repubblica
Mi
ricordo tantissime cose della scuola.
Nel
mio piccolo, come si dice, ho sempre avuto un'ascendenza forte sugli amici,
guidavo sempre il gruppo, in ogni classe che si andava si riferivano tutti a
me.
Se
poi guardiamo la quarta, la quinta e la sesta ho avuto la soddisfazione che
andavo io a parlare con il direttore di allora, mi ricordo era un certo Strumia
di Sommariva Bosco.
Mi
ricordo che, in quegli anni in cui frequentavo le scuole, era nata una figlia
del principe Umberto, allora le maestre per fare bella figura hanno detto che
c’era da portare una somma, non era una cifra grande, proprio poco. Dicevano:
“Così facciamo un totale grande con tutte le scuole e facciamo una bella
figura”.
Io
un giorno dopo l'altro non l'ho mai portata e un bel giorno la maestra mi ha
detto: “Adesso basta Pasquero, mi devi spiegare perché continui a rifiutare”.
Io le ho risposto: “ Io non rifiuto niente, ma mia mamma mi ha detto:
“Sarei molto contenta di darti quelle poche monete che hanno stabilito, ma io
non ce le ho. O ci mettiamo tutti d'accordo, stiamo una settimana senza
assaggiare il cibo e tiriamo fuori quelle poche lire…” E poi proprio nel mio
cuore io non sono monarchico, io sono repubblicano”. Volevo spiegare perché ero
repubblicano… Queste maestre in un battibaleno si sono riunite tutte nella mia
scuola, stupite di sentire una cosa simile. Allora arriva il direttore e dice:
“ Cos'è tutto questo trambusto?”
“
C'è questo alunno Pasquero che come al solito vuole dire la sua, dice che lui
non è monarchico anzi è repubblicano e non è d'accordo, vuole anche spiegarci
il perché”. Lui ha detto: “Spiegalo che lo sento anch'io”. Io mi sono
incominciato a spiegarlo dicendo: “Non è giusto, il re può essere una
grandissima persona di intelligenza e di capacità, ma suo figlio può essere uno
come me che non capisce niente e quindi non è lecito e non è giusto nemmeno che
aspiri a diventare lui un principe e un re a suo tempo perché magari non ha le
capacità”. Facevo tutta la spiegazione su quella cosa lì, le maestre si sono
messe a gridare. Allora il direttore ha detto: “ Alt, vieni con me, andiamo nel
mio ufficio e parliamo io e te da uomo a uomo”. Siamo andati lì e io ho
raccontato un po' più con calma, un po' più con precisione tutte quelle cose
lì.
“Ah,
è ancora vivo?”.
“Sì
sì, è in gamba”.
“Mi
potete indicare dove abita?” Combinazione era proprio, mettiamo, cinquanta
metri di distanza. Vado lì, suono il campanello, lui arriva fuori: “Oh chi si
vede? Quel Pasquero… sei venuto di nuovo a fare qualche dimostrazione?”.
Si ricordava. Gli risposi: “No, sono un partigiano".
“Ho
visto l'armamento che hai, la divisa,...”. Mi viene vicino e mi dice:
“
Tu hai avuto una fortuna perché quello che tu dicevi io l'avevo dentro al
cuore, ma tu potevi dirlo perché eri un ragazzino e quindi potevi anche dire
quelle cose lì, una sciocchezza, ma se lo dicevo io perdevo il posto”.
2. La Scuola e l'offerta di Don
Cavallotto
Io ero tanto appassionato ai libri e allo studio, ma
non potevo permettermelo.
A Canale c’era un prete, Don
Cavallotto2, che mi voleva un gran bene, me l'ha dimostrato in tutti i sensi e
mi fece questa proposta: - Paolo mi rincresce che tu non hai il fisico per fare
il contadino, ci va delle persone robuste, ma lo so che tu lo fai perché alla
tua età non ti mettono a lavorare in nessun posto e allora vai avanti con il
tuo fratello più anziano. Così disse: - Io ti faccio un'offerta: mio fratello
(molto più giovane di lui mi sembra che fosse del ‘22-‘23) va a Torino in un
collegio.
Se tu accetti la mia offerta, vai lì a
scuola con lui: il primo anno fai le tre medie, poi fai un anno la prima e
seconda ginnasiale, il secondo anno la terza e il terzo anno la quarta e la
quinta; con la capacità che hai ce la fai ad assorbire tutti questi studi.
Quando sarai arrivato al diploma, se credi di fermarti lì va bene, altrimenti
puoi anche andare all'università e io continuo a pagare fino all'ultimo soldo
per te. Sentivo che credeva nella necessità di aiutare uno indicato a
fare quel programma scolastico. Io l'ho detto a mia mamma e le ho proibito di
scrivere ai fratelli che erano sui fronti, uno russo, uno in Francia e uno in
Germania.
Loro mi hanno scritto tutti e tre: - Dai
un calcio a tutto, va a studiare, tu sei l'unico che ha la capacità di farlo
mentre hai chi ti dà questa mano molto importante. Lascia perdere la terra,
tanto quando arriveremo a fine guerra non avremo più niente e quindi saremo di
nuovo da capo. Io non mi sono sentito di lasciare mia mamma, poi a 11/12 anni
non puoi avere una tua volontà per seguire certe cose, così. E ancora Don
Cavallotto mi aveva detto: - Io segnerò tutto fino all'ultima lira, ma
conoscendoti bene sono convinto che tu l'avrai segnato per conto tuo, fino
all'ultima lira che io spenderò per il tuo caso. A fine del diploma e… se
poi speriamo che vai avanti fino alla laurea, sommeremo tutto. Se ti troverai
nell'occasione di risarcirmi, io non ti dirò di no e lo devolveremo tutto a una
società di aiuto ai poveri. Non voleva un soldo, così sarei stato contento,
perché altrimenti né io né i miei fratelli avremmo accettato quel dono senza
avere la possibilità di risarcimento e quindi più di così cosa volevo
pretendere da un sacerdote?
Ho sue lettere che mi scrive proprio
col cuore.
Ma ho rinunciato, andando da
“servo-garzone” in una azienda agricola in campagna per aiutare la famiglia.
Sarà stato del ‘40, del ‘41…avevo quattordici-quindici anni. Ci aveva chiamati il padrone del caffè Casetta, io e un mio amico che adesso non c'è più.
E
ci ha detto: “Ho chiamato voi altri due perché mi fate le cose bene. C'è da
imbottigliare questo vino e poi tappare le bottiglie”. Allora si faceva tutto a
mano.
Poi ci ha
detto a chi erano indirizzate: alla casa del Fascio!
Prima
abbiamo fatto la discussione tra di noi. Ecco, abbiamo detto: “E secondo
te?” Io chiedevo a lui, lui chiedeva a me. “Potremmo sputarci
dentro, secondo te si vedrà? Il gusto si sentirà? Non penso”.
Allora,
abbiamo preso un bicchiere, abbiamo messo un po' di vino dentro, abbiamo fatto
uno sputo, abbiamo mescolato un po' e poi l’abbiamo messo dentro alla
bottiglia.
So che non
l'ho mai detto a nessuno. Oggi non lo farei più, ma mi ricordo che a più di una
bottiglia abbiamo sputato dentro.
Mi ricordo una domenica di inizio giugno del 1940. Ero venuto a casa con una bicicletta tutta legata con il fil di ferro.
In tutte le chiese e
a tutte le messe il sacerdote aveva avvisato, con un avviso che gli avevano
lasciato dal municipio: ” Domani parlerà il duce1 e allora ci
saranno degli altoparlanti che funzionano sulla piazza principale e avrà da
dirci una cosa molto importante; cercate di portarvi sulle piazze.” E così via”.
Io sono andato a casa mia e poi, verso sera, sono rientrato in bicicletta
e ho detto la cosa ai padroni. La loro risposta è stata: “Allora, noi non
andiamo, perché quando siamo lì, abbiamo soltanto sprecato il nostro tempo e
non capiamo una parola di quello che dice, l'unico che può capire e può
spiegarlo a noi sei tu”. Io non mi aspettavo una cosa simile, ma mi
hanno mandato. Sono andato con la bicicletta fino al paese e lì abbiamo sentito
tutto quello che Mussolini ha detto.
Quando sono venuto
indietro c’erano tutti i familiari, le famiglie grandissime, tutti i vicini
delle cascine vicine, tutti già invitati da loro a sentire la mia
spiegazione. Io ho parlato più o meno, non ripetendo parola per parola, ma
il senso che aveva spiegato Mussolini per dire quelle cose lì.
La mia reazione alla
guerra è stata più di tutto il pensiero ai miei fratelli. Ho pensato che fosse
una cosa tranquilla, ma loro hanno sopportato proprio il massimo dei
disagi.
La cosa che ho proprio
subito pensato è stata quella lì; io leggevo tanto, specialmente sui libri
scritti da socialisti e quindi lì vedevi già l'impronta contro il padrone,
contro il politicante.
Così io capivo cosa voleva dire, le sue spiegazioni. Quel signore aveva
dichiarato guerra, ma chi la faceva e la sopportava era la popolazione, erano i
soldati che ci andavano. Io quando venivo a casa una domenica o due al mese
venivo a salutare la mamma e immediatamente andavo a trovare il mio amico
sacerdote Don Cavallotto e si parlava sempre, lui mi raccontava tante
cose.
Quella volta gli ho
detto: “Speriamo che domani vengano i miei padroni a sentire cosa dice
Mussolini”. Non immaginavo che mandavano me”. “Ma se, in tutti i casi non
vengono i miei padroni, e non lasciano il tempo di venire a me, lei avrà la
cortesia di spiegarmi quello che ha detto”. “Sta’ tranquillo, sta’ tranquillo”.
E invece sono andato all'incontro e ho dovuto io spiegare a loro.
5. 26 luglio 1943 – Le butto giù io le insegne del fascio!
Il 25 luglio 1943 è arrivata la caduta del fascismo.
Il giorno dopo, prestissimo, sono andato giù
in paese e così per combinazione ho trovato un coetaneo che avevamo
incominciato l'asilo assieme, eravamo della stessa età, lui era di un'altra
corrente dalla mia. Era un ateo convinto, però io ho sempre portato rispetto a
lui e lui me l'ha sempre ricambiato rispettando le mie idee. Abbiamo fatto il
giro di tutte le insegne che c'erano nel paese, di fasci o di commemorazione
del fascismo: abbiamo così distrutto tutto quello che trovavamo.
Ho un ricordo bellissimo di quella mattina
del 26 luglio, anche se forse può sembrare un gesto da terroristi. Sul
fabbricato del peso pubblico [NdR: presente in Piazza Marconi fino alla
fine degli anni Novanta] c’era il distintivo del fascio, proprio il distintivo
del fascismo, con due fasci che scendevano, uno davanti e uno dall’altra
parte.
Abbiamo
messo una scala a pioli che non toccava contro la cima. E allora in quattro
uomini, due da una parte e due dall’altra la tenevano ferma, io non ero molto
pesante. Sono salito su e poi ho messo le mani così, che mi ricordo che tremavo
tutto, ma niente da fare! Volevo farcela a salire sopra quel tetto che era
soltanto una cosa come una terrazza. Ho scardinato il fascio che c’era sotto,
poi ho scardinato tutto e c’ho una foto dove la vedi bene e l’ho perfino
scritto. C'è scritto sulle mie memorie: “Quel vuoto lì è dove ho levato il
fascio e l’ho buttato giù”.
Dicevo:
“Levatevi di lì”. E l’ho buttato giù. La gente mi batteva le mani.
6. "Distruggete tutto" Tra vendetta e memoria.
Il 26 luglio 1943, il giorno dopo la caduta del fascismo, siamo andati nella casa del fascio di Canale. Arrivati lì se avessimo ascoltato chi si era unito a noi… Da due eravamo passati ad una trentina, gridavano: “Distruggete tutto!!” E io: “Ma come si distrugge tutto? Così si distrugge anche la vita del nostro paese che possiamo poi raccontare ai nostri nipoti e non soltanto ai figli. No, no, distruggete tutto!!”. Allora, abbiamo detto a due: “Andate giù nel cortile e incominciate, noi buttiamo giù due cassettoni e voi altri raccogliete questi fogli e incominciate il falò. Poi noi continueremo a buttarne giù degli altri”.
Abbiamo buttato così giù un po’ di tutto, da
bruciare. E’ stato uno sbaglio gravissimo.
Per
fortuna che io con la mia passione di tenere tutto quello che potevo, arrivati
lì dove c'era il deposito delle fotografie, ho detto: “Ah, queste qua no! Qua
c'è la storia fotografica dell'andamento del nostro paese!”.
Allora
ho messo da una parte il cassone delle foto e ogni tanto se qualcuno voleva
mettere le mani là sopra io gli dicevo: “No. Io sono stato il primo a entrare
qua dentro e quindi ho l'autorizzazione di farlo”. Poi ho portato il cassone a
casa e avevo oltre duemila fotografie, oltre ma di un bel po'. Poi, poco per
volta, magari alla domenica o al giorno di mercato, trovavo un amico che mi
diceva: “Ho saputo che c'erano delle fotografie, non si può vederle?”. E io:
“Perché no? Avete soltanto da venire a casa mia”.
Allora
c'era quello là, alla buona, che mi chiedeva: “Che turno fai di lavoro
adesso?”. Io dicevo: “Faccio il pomeriggio”. Allora veniva il mattino.
“Faccio il mattino”. Veniva la sera. “Faccio la notte”. Veniva quando poteva,
ecco. E invece c’era quello lì che mi chiedeva il turno che facevo, e veniva
nel mentre del turno, così sapeva che non mi trovava.
Mia
mamma, povera donna, faceva come poteva, e allora ogni volta che veniva uno,
questo si appropriava delle foto e io non potevo sorvegliare tutto. Ho sempre
creduto che gli altri fossero come me, che quelle cose lì non si toccano, non
si rubano l’uno con l'altro.
Quando
mi sono accorto era troppo tardi, quindi da oltre duemila sono rimasto con
circa duecento, più o meno. E’ rimasto ben poco…
Rincresce, ma non c'è stato niente da fare.
7. Il tesseramento fascista
Era
obbligatorio andarci, la legge prevedeva che, dopo tre assenze ingiustificate
al sabato fascista, si venisse deferiti al tribunale militare.
Io,
però, sono stato tre sabati consecutivi senza andare e al quarto sabato che
avevo idea di non andare sono arrivati due Carabinieri che mi hanno legato e
ammanettato poi mi hanno portato
in
Piazza S. Sebastiano [NdR attualmente chiamata Piazza Toso destinata a
parcheggio, presente tra il vecchio Ospedale e la circonvallazione].
Ero
molto orgoglioso, in quel momento gli schiaffi non li ho neanche sentiti. Il
segretario del fascio mi ha detto che avevo fatto una grave mancanza a non
andare al sabato fascista: io ho cercato di spiegargli la mia situazione, la
mamma sola e i tre fratelli in guerra, e quindi c'ero solo io che potevo
lavorare, ma lui non mi ha dato ragione.
La persona che mi ha schiaffeggiato era
il padre di un mio amico. Molti anni dopo, finita la guerra, l'ho
incontrato sotto i portici di Canale. Eravamo soli ma lui ha cercato di
evitarmi; come mi ha visto è sceso giù nella strada e io sono anche sceso nella
strada. Gli ho detto dandogli del lei: “Lei non doveva scendere lì, io rispetto
la sua età, perché quegli schiaffi che mi ha dato io sono convinto che se
eravamo solo io e lei non me li avrebbe dati, ma per farsi notare da segretario
politico doveva”. Lui si è messo a piangere: “Ho una piccola boita, devo
vivere”. Allora gli ho detto: “Vai pure tranquillo che da me non avrà mai
nessun disturbo per niente.
Se
lo meriterebbe almeno uno schiaffo dato che lei me ne ha dati due, ma non è
nelle mie abitudini fare quelle cose lì".
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