Racconti - Parte 3 - Resistenza

 

1. 


Mi chiamavo Valter

   Il mio nome di partigiano era Valter. Perché questo nome? … Alla domenica alla messa, Don Carlo [ ndr, Cavallotto] ha fatto una predica; lui veniva dall'alta Langa, da Gottasecca. Ha detto che era andato in una casa, che l'avevano chiamato per un parto improvviso e non sapevano se il neonato viveva o no. E’ andato lì e hanno fatto le cure che gli potevano e grossomodo si è salvato.

   Allora dice al padre:  “Che nome gli mettiamo di battesimo?”.

“Faccia lei”.  

“Ma come faccia lei?”  risponde Don Carlo. 

“Mi dica lei,  ho già sei figli e non so più che nome mettere ancora”. Sul tavolo c'era una rivoltella. “Ah ecco, gli mettiamo il nome Revolver”  ha detto. E don Cavallotto: “No, non è una cosa che ha senso…” 

“Allora mettiamo Valter e così va bene”.

La mattina dopo io entro nei Partigiani, ho dato tutte le mie generalità, poi ho chiesto: “Basta? Me ne vado?”

“No, no, devi dirmi che nome di battaglia vuoi avere”. Io non ero al corrente di quella cosa lì, ho detto: “Ma non so…”. In quel momento mi è venuto in mente quel Revolver, ho detto: “Valter va bene”.

“ Dove l'hai preso?” 

Io ho risposto: “Non stiamo lì a raccontare tutto”.

 



 2.    Duccio Galimberti a Canale

   Il 13 gennaio 1944, Duccio Galimberti venne ferito a San Matteo di Valgrana, durante un attacco condotto da una colonna nazista. Ferito ad una gamba con due proiettili. Per curarlo l’hanno portato a Borgo San Dalmazzo, ma non l'hanno accettato, l'hanno portato poi a Cuneo, ma anche lì non l'hanno accettato, sempre per il personaggio scomodo che era. Io ero molto amico con chi l'ha portato [Ndr: Dott. Mario Pellegrino, Grio], era un capitano medico delle Formazioni GL. Anni dopo l’ho invitato ed è venuto a parlare in occasione di un 25 aprile a Canale, è venuto qui a casa mia e mi ha detto, riferendosi a Galimberti: “L’ultimo affronto che ho avuto è stato all'ospedale di Alba. Sono arrivato lì e ho chiesto al direttore, che mi hanno subito passato: “Ho un partigiano ferito che vorrei che fosse ricoverato qua.

  C’è da fargli un intervento perché ha due proiettili in una gamba”.  “Senz'altro - mi ha risposto - A proposito, mi dica un po' chi è?”  Non potevo fare a meno di dirgli il nome. Come ha sentito il suo nome:
  “Con quello lì non posso!”. 

   Si vede che il suo nome si era già allargato in tutta la provincia e fuori provincia, dappertutto. “Non posso perché io ho una cinquantina o più di partigiani feriti ricoverati qua, chi sotto falso nome, chi con nome autentico, ma con cognome della moglie. Questo qua, Galimberti, è troppo evidente… mi bloccano l'ospedale, mi distruggono tutto”. Allora ho detto a Galimberti:
   “Caro Duccio, bisogna che porti pazienza, nemmeno qua ti vogliono. Ma stai tranquillo, adesso abbiamo ancora un posto da andare. A Canale io conosco una signora, lei e il marito [Ndr: il marito era Tonio Ferrero], hanno una fornace e sono disponibili a tutto. Sono sicurissimo che loro ti accettano, tanto più che lui, il marito, è il presidente dell'ospedale di Canale.

  Arrivati a Canale, siamo andati a casa di Ferrero dicendogli: “Ho un partigiano ferito qua, è il tale dei tale e lui ha subito detto: “Non mi interessa il nome, mi interessa il personaggio, è un personaggio per il quale vale la pena di rischiare, perché può anche essere il prossimo presidente del consiglio”.
   E difatti era così. 

    Nel periodo in cui è stato a casa di Ferrero, Galimberti ha scritto un progetto di riforma agrariaOltre ad essere avvocato era un personaggio che andava oltre l'avvocatura, oltre la laurea.  Ha scritto quella cosa lì che non aveva niente a che fare con la sua professione di avvocato, che si occupa di diritto. Con questo progetto voleva risolvere le questioni di lasciare la terra a chi la conduceva a mezzadria o da fittavolo o … e difatti è andata poi così la riforma agraria.                      

   Noi, intanto, sapevamo che c'era un grande personaggio, ma non ce l’hanno detto per sicurezza. Ma io ho detto a mio fratello: “Tu mi dici sempre le cose e così adesso te lo dico io, non sono ancora riuscito a sapere il nome, ma c'è un personaggio lì e l'ho già visto”.  Sono riuscito a vederlo, di dietro perché per fare dei movimenti con la gamba, dove c’è stato l'intervento, camminava dalla casa giù verso le file di nocciole, altissime. Lui camminava lì in mezzo con un giaccone addosso. Infatti quando l'hanno ucciso a Centallo [ Ndr:il 4 dicembre del ’44] aveva quel giaccone lì. 

   In quei giorni sono venuti i fascisti da Asti a controllare la casa del Ferrero. Mentre sono lì, vedono tra i filari di nocciole questo personaggio che andava su e giù in mezzo alla neve: “Chi è quello lì?”

   “Ah quello lì è un mio zio, un anziano che non ha più nessuno, allora vive qua a casa nostra”.

   “Come si chiama?”.

  Lei ha detto un nome inventato. L’hanno chiamato, ma naturalmente lui non ha risposto. “Magari una cannonata può anche sentirla, ma le voci non le sente più. E’ talmente sordo che nemmeno noi quando viene a tavola a mangiare non sappiamo mai cosa dire, cosa rispondere quando parla”. E loro ci hanno creduto e se ne sono andati. Avevano soltanto da fare quei cinquanta metri e l’avrebbero catturato… invece niente, hanno creduto alle parole di quella signora. Così Duccio ha avuto salva la vita. Però nella notte o al massimo l'indomani l'hanno portato via. Il Ferrero aveva avvisato il responsabile di Torino, così sono venuti da Torino con un'auto, l'hanno prelevato e l'hanno portato via. 

   Lui intanto si era abbastanza ristabilito. Era già più di quindici giorni che era stato operato nell'ospedale di Canale. Ferrero mi metteva al corrente. Io gli dicevo:   “Ma senti un po' Tonio - non dicevo nemmeno più signor Ferrero, gli davo del tu - Non parlate mai?” 

   “Sì sì, parliamo di tutto, della Resistenza di questo e quello. Lui è una persona molto in gamba. Voi vi siete già dimostrati che siete gente di cui fidarsi”. Ma comunque il nome non ce l'ha mai detto. Forse è stato meglio così, è più facile da tenerlo dentro perché tanto non ne sapevi niente. In quei periodi la sicurezza non era mai troppa. Non sapevamo se corrispondeva a un personaggio altolocato o soltanto un avvocato qualunque.

 


 
Duccio Galimberti operato nell’ospedale di Canale

Memoria di Dante Faccenda dell’Associazione Franco Casetta.

 Suor Angela Cucchi è stata un personaggio importante a Canale. Paulin ne parla su Gazzetta d’Alba del 31 maggio 1995 dove, tra l’altro ricorda: “Per tutto il periodo resistenziale si è potuto contare su di lei 24 ore su 24 e, indistintamente, tutte le formazioni partigiane affidarono alle sue amorevoli cure i loro feriti o ammalati… Anche Duccio Galimberti ebbe lei come infermiera nel periodo di permanenza nell’ospedale…”. Non soltanto come infermiera, ma anche come provvidenziale, astuta salvatrice. Infatti ecco un episodio che, a distanza di anni, lei aveva appena accennato e soltanto a fatica mi riuscì di farle raccontare tutto, perché umilmente cercava di non dare importanza al suo geniale, coraggioso e spericolato intervento.

   Duccio Galimberti, fu ricoverato in gran segreto il 15 gennaio ‘44 all’ospedale di Canale da Tonio Ferrero, che ne era il presidente, ed era stato immediatamente operato dai dottori Mattia Appendino e Cesare Denoyé con l’assistenza della stessa Suor Angela. Due giorni dopo qualcuno riuscì ad avvertire di un’imminente incursione di repubblichini in ospedale. Non c’era più tempo per nascondere Duccio. E poi dove? Si sapeva che, come già altre volte, avrebbero perlustrato ogni angolo, soffitte comprese.      

   Ed ecco la geniale intuizione della nostra Suor Angela: in tutta fretta aiutò Duccio ad alzarsi dal letto, anche se ancora molto dolorante per il recentissimo intervento, gli fece indossare un camice bianco, gli mise al collo un fonendoscopio e gli raccomandò di aspettare pazientemente accostato al letto di un ricoverato, come fosse un medico intento a visitarlo, ma con le spalle alla porta. Appena questa si aprì di brutto, il Galimberti senza voltarsi e secondo le istruzioni di Suor Angela, sbottò con voce autoritaria: “Fuori! Sto visitando!”. Il degente di cui si vedeva il volto, non era persona sospetta, per cui gli incursori, richiusa la porta, se ne andarono a completare l’ispezione.    Quella notte stessa Duccio fu riaccompagnato a casa Ferrero dove rimase convalescente fino ai primi di febbraio. In quei giorni un altro astuto stratagemma salvò in extremis la vita a Duccio Galimberti.

   L’intuizione questa volta fu della padrona di casa, l’eroica Gemma, moglie di Antonio.

 


4. 16 aprile 1944 - La trappola

   Erano agenti dell’UPI (Ufficio Politico Investigativo) ma noi non lo sapevamo.
   Li avevo intravisti al fondo del paese che passeggiavano. Ma in faccia non li ho visti e se poi li avessi anche visti non sapevo chi fossero, non puoi ricordare le facce di uno che non conosci. Erano in tre con i loro soprabiti, spolverini di colore chiaro.    Erano tre o quattro giorni che giravano per il paese, si informavano da uno e dall'altro e davano appuntamento per domenica pomeriggio presso la caserma dei Carabinieri1, volevano far correre la voce, volevano il passa parola. Ma nessuno ci ha fatto caso. Poi un bel momento, Tonio Ferrero ha detto: “Ma qua bisogna fare attenzione e cercate di stringerli un po' e farli cantare e con bel modo… Andate”.   
    Rino Raimondo, il mio amico partigiano e un suo amico sono andati anche loro all'appuntamento e c'ero anch'io quella domenica. Era il 16 aprile ’44, eravamo una cinquantina, saremmo poi diventati tutti partigiani, ma il gruppo non l'avevamo ancora fatto.
    Io gironzolavo in mezzo a questi cinquanta e loro saranno stati al massimo cinque o sei.
    Parlavano anche in dialetto torinese, ma io non capivo cosa volessero dire. Mi sono avvicinato a mio fratello: “Ma Cecu, bisogna fare attenzione che questa gente qua per me non è dei nostri, parlano di tutto, meno di ciò che potrebbe interessare a noi”.
“Tu sei sempre il solito che trovi la pagliuzza negli occhi degli altri, io non trovo niente… come fai a saperlo?”   
“Io dico soltanto, secondo il mio pensiero, che non sono partigiani questi qua, vogliono raccontarci delle balle e attirarci. Non dicono da dove vengono, dicono che sono in un reparto partigiano, ma dove? Dicono che sono armati e hanno ancora delle armi a disposizione per chi volesse andare con loro, ma chi sono? Garibaldini? Comunisti o socialisti di Giustizia e Libertà GL?” 
   Noi eravamo autonomi. Non capivamo, non riuscivamo a farci una ragione. Non sostenevano niente, perché loro non ne parlavano.    Soltanto quando venivano diverse volte interrogati da noi: “Ma chi siete chi siete?” loro dicevano: “Ma noi siamo partigiani come voi altri…Voi siete già partigiani, siete già partigiani no?”
E noi: “Noi no!”  Loro volevano pescarci in quel modo lì. 
“Noi siamo raggruppati così come si vuol dire, ma non c'è nessuna idea di fare il partigiano; non sappiamo nemmeno cosa sia”.  
“Ed allora come mai vi siete trovati qua in tanti?”. 
“Ce l'avete detto voi di passare la voce di trovarsi qua…

Ero quasi sempre io che parlavo. Nessuno diceva niente. Quelli più anziani di quattro/cinque anni più di me andavano piano a parlare, perché c’era molta diffidenza in quel tempo là. Invece io parlavo tanto, ma non capivo niente di quello che interpretavano loro. Ad un certo momento, allora, ho detto a mio fratello: “ Mio caro fratello, io me ne vado.
“Ma come te ne vai? Ti sei scaldato per venire qua e sei andato a parlare a questo quell'altro… adesso vuoi andare via?”

“Sì sì, perché qua si mette male. Perché facciamo delle domande e non rispondono alle nostre domande, gli chiediamo da dove vengono e loro non lo dicono, gli chiediamo dove vogliono portarci e loro non si esprimono. E allora con chi abbiamo a che fare? Qua c'è qualcosa sotto che non gira bene. Qua va a finire che ci fanno tutti  prigionieri e ci portano via. Fa come vuoi tu, io me ne vado”.

“Ah, se esci tu, allora esco anch’io”. Allora, essendo usciti noi due saremo usciti in quattordici o quindi. Dopo un po' ne sono di nuovo usciti un'altra quindicina… Poi un bel momento abbiamo sentito degli spari e visto poi spalancarsi la porta e sono usciti gli ultimi sette o otto. Allora noi che eravamo lì fuori abbiamo capito tutto e ci siamo messi a correre, chi di qua, chi di là. Un po' dopo, si faceva già notte, sono usciti loro e han preso quattro o cinque dei nostri che erano lì fuori e Stefano Burzio di Vezza [foto], uno di noi sui trentacinque anni, che avevano già malmenato all’interno. Gli avevano già rotto le costole, l'avevano fatto sanguinare dappertutto, perché si rifiutava un po', allora continuavano a colpirlo.  Hanno continuato con calci, pugni e spintoni e quando è stato in macchina hanno di nuovo continuato a batterlo. Quando sono stati a un chilometro e mezzo da Canale, non ancora a Valpone, hanno aperto la portiera della macchina e l'hanno sbattuto giù. E’ andato a finire sull'erba e poi giù dalla riva che c'è lì ed è morto lì. L’hanno ammazzato, l'hanno ammazzato.

  


5.Testamento spirituale di Paulin

 Canale 10 aprile 1945, ore 10 e un quarto

    Io, in piene mie facoltà mentali, sentendo vicina l'ora dell'insurrezione, mi sento in coscienza di esprimere le mie volontà. Sento che sta per scoccare l'ora decisiva per la mia patria, l'ora in cui noi, suoi figli, dobbiamo essere più che mai uniti in una sola comunione di spirito e di idee.

   È la nostra patria che ci chiama, è lei che lo vuole, è Dio che alimenta in noi questa nostra fiamma di patriottismo, perché noi ce ne serviamo in bene, perché noi possiamo agire per una nuova ricostruzione, affinché noi portiamo alto i nomi di Dio e della patria, tanto oltraggiati; perché infine, nel solco da noi tracciato, difeso, e che forse ci vedrà cadere, le nuove generazioni possano marciare verso nuovi destini e con nuove idee.

    Non combatto le idee altrui, non odio chi mi vorrebbe far perire, non godo del nuovo spargimento di sangue, ma difendo la mia, la nostra idea che altri, incoscienti, vorrebbero gettare nel fango.

   Chiedo all'Onnipotente la grazia di poter portare sempre alta la mia fede, anche trovandomi in certi momenti a faccia a faccia con la morte.

 Chiedo perdono a tutti quelli che volontariamente o involontariamente avrò fatto del male. Ringrazio, dopo Dio, tutte quelle persone che mi hanno aiutato, in modo speciale, Don Carlo, per i suoi consigli, le sue brave parole, tutti gli amici dell'Associazione3 che mi hanno sempre amato e seguito nel tempo in cui facevo parte della Presidenza. A questo riguardo vorrei far conoscere apertamente che il mio più bel giorno della vita fu quello in cui entrai a far parte dell'Associazione. Fu per me una vera tavola di salvezza.

    Lo fu per me e lo sarà a sua volta per altri. Una palestra della quale si esce da veri cristiani.

 Paolo Pasquero, 10 aprile 1945

  


6. I 23 giorni della città di Alba

     I partigiani, tra cui la 23ª Brigata Canale, riuscirono a prendere il controllo della città di Alba il 10 ottobre 1944. 

   La Brigata Canale è entrata, si può dire, la prima in Alba. 

   Il comandante Mauri ha contato molto sulla presa di Alba da parte della Brigata Canale; ci contava sia come uomini disponibili e coraggiosi, sia come armamento. Quando abbiamo perso la città, siamo usciti per ultimi. 

   Noi, in quel periodo, eravamo un po' ad Alba, un po' venivamo a casa. I capi erano contenti quando qualcuno chiedeva di andare a casa, così era uno in meno che mangiava. 

   La liberazione di Alba è stata un momento di grande entusiasmo per la popolazione e per i partigiani. La gente abbracciava i partigiani per strada, offriva loro cibo e mostrava la propria gioia per la liberazione. 

   Nei primi giorni mi ricordo che in via Maestra c'era una pasticceria, dove c'erano tanti pasticcini e confetti. Mi sembra che ci sia ancora oggi quella pasticceria lì… penso si chiamasse Cignetti. Si trovava da Piazza del Duomo andando su in via Maestra. Entravi, mangiavi tutto quello che volevi e ti facevi una scorpacciata di dolci, ce li davano gratis.

Anche se eravamo in tanti.

    In occasione della permanenza in Alba successe che c’era la fila, tra i partigiani, per farsi fotografare. Era l’unica soddisfazione in quel momento lì, farsi fotografare da Partigiano con la tua arma.

   L’han pagata cara questa foto. Dopo pochi giorni ne abbiamo già avuto uno arrestato e poi fucilato perché l'avevano riconosciuto dalla foto. 

   Queste fotografie o le hanno prese da chi ha fatto le foto o sono state consegnate direttamente al comando Fascista da chi scattava le foto.

        Io non so chi ha fatto queste foto, io non sono andato. Ho detto a mio fratello: “Tu sei più grande di me e quindi fai come vuoi, ma io non vado”. E allora non è andato nemmeno lui.

   Era un fotografo di Alba, sono venute fuori queste foto. Ne avevano presi diversi che si erano fatti fotografare.

    Hanno peccato di superbia. Dovevano mantenere l’anonimato.

   La gioia per la liberazione fu immensa, ma il controllo su Alba fu purtroppo effimero. Infatti, dopo circa tre settimane, fummo costretti ad abbandonare la città a causa della controffensiva nemica. La perdita di Alba avvenne il 2 novembre 1944.

    Cane Carlo, Carlin, giovane contadino di diciannove anni, diventato partigiano in seguito all’occupazione tedesca della città di Alba, è stato ferito il 2 novembre del 1944, nella perdita della città.

   Era dei nostri. Quando abbiamo perduto Alba, siamo scappati tutti nel modo del si salvi chi può. 

   Allora lui si è gettato nel fiume Tanaro e a nuoto ha raggiunto la sponda opposta, nonostante che a novembre c’è sempre la piena del fiume. Si è portato fino a un gruppo di piante dove si è potuto nascondere e poi è svenuto. E’ stato trovato da contadini, che l’hanno portato a casa e hanno chiamato un dottore che gli trovò una polmonite per via delle acque gelide. Venne trasportato all’ospedale di Canale dove restò fino alla sua morte, che arrivò all’incirca dopo un mese, verso la fine del 1944.

   La “23a Brigata Canale” fu fra le primissime ad entrare nel centro langarolo il 10 ottobre e fra le ultime a lasciarlo il 2 novembre dopo strenuo, ma inutile combattimento. Proprio in questa occasione si creò gran parte della leggenda che accompagna la sua storia. Meritando, caso rarissimo, l’encomio dello stesso maggiore Mauri2:

   «Sono lieto di esprimere il mio vivo compiacimento per il comportamento tenuto dalla Brigata “Canale” durante la battaglia per la difesa di Alba. La caduta della città nelle mani del nemico non è che un episodio, che non deve scuotere né il nostro spirito né la nostra volontà. Cedere di fronte al nemico soverchiante non è disonorevole, quando si è onorevolmente combattuto. Ritempriamo le forze per le prove future. Il giorno della riscossa non è lontano.

   Riconquistata Alba, i nazifascisti intensificano la repressione antipartigiana con durissimi rastrellamenti, approfittando anche dell’intempestivo proclama Alexander3. Il freddo e la neve del terribile inverno 1944 hanno complicato ulteriormente la vita e l’azione dei partigiani.

   Da ricordare l’importante e celebre libro che Beppe Fenoglio4 dedicò a “I ventitré giorni della città di Alba” pubblicato nel 1952. 

  


7. 8 marzo 1945 - Uno studente in mezzo ai fascisti

 

Al termine della Battaglia di Santo Stefano Roero dell’8 marzo 1945  abbiamo trovato vicino ad una pianta un bel ragazzo. Era ferito e maciullato, non c'era più niente da fare per salvarlo. Quando siamo arrivati lì vicino, ci ha fatto capire di metterlo in modo da avere un appoggio al tronco dell’albero.

Ci disse che era uno studente meridionale, che però studiava all'università di Venezia. L’avevano preso e tenuto tre-quattro mesi nelle celle di Torino e poi quella mattina l’avevano vestito da fascista, caricato e mandato a fare il lavoro qua. 

Ci ha spiegato queste cose, poi ci ha detto di prendere il suo portafogli e, se avessimo avuto l'occasione, di farlo avere ai suoi familiari: “Dite loro che io sono stato ucciso da quei cani di fascisti”.


   Dentro al portafoglio c'erano settanta lire, allora settanta lire era un piccolo capitale, e glieli abbiamo date a Fra Caramba che facesse dire le messe per lui in convento.  

   Tempo dopo, andando casualmente da un barbiere a Torino, ho riconosciuto quel ragazzo in una foto appesa sul muro. Il negozio era di suo fratello, che avvisato del messaggio che gli dovevo portare, mise fuori tutti i clienti presenti; poi mi venne vicino e gli ho così consegnato il portafogli, dicendogli le parole che il fratello mi aveva detto, che chi l'ha ucciso sono stati quei cani di fascisti.

Lui si è messo a gridare, ma oramai non c’era più niente da fare… 

 


8. Ho difeso Palazzo Reale a Torino

  La mattina presto del 28 aprile 1945 siamo poi andati a Torino dove la nostra collaborazione e il nostro aiuto sono ancora stati molto validi perché c'erano ancora diversi cecchini dislocati in caserme e in caseggiati isolati che continuavano a sparare. Abbiamo ancora sostenuto diversi interventi per fermarli.
   Allora è arrivata una staffetta partigiana e ci ha detto che ci avevano dato il posto al Palazzo Reale e siamo andati lì. 

  Combattere non potevi più, c'era soltanto da tirare fuori questi cecchini dai palazzi. Io, per esempio, un po’ da disgraziato perché non devi andartene da solo in giro per la città, al mattino alle 4 scendevo da quella specie di pagliericcio che avevamo noi al Palazzo Reale per andarli a cercare.

  Nel Palazzo ho visto, con dispiacere, brutti nostri comportamenti… Io dicevo:  “Non posso sgridarvi perché dopotutto per noi che abbiamo vissuto nella miseria assieme alla fame, constatare la ricchezza che c'è qua dentro fa venire un po' di rabbia…, però è da criminali distruggerle. Sono cose che devono restare lì nella storia”. E mentre io dicevo questo c'era già chi rompeva delle vetrine, con gli scaffali dentro. Mi rispondevano: “Oh, ma tu sei sempre l'unico pazzo che abbiamo assieme a noi”. Io ne soffrivo dentro. “Eh ma levare le porte, romperle, spaccarle, ma non so, non si deve fare”. Mio fratello che aveva cinque anni più di me, mi diceva: “Tu, Paulin, ti metti sempre nei pericoli, una volta o l'altra invece delle porte ti aprono te in mezzo. Mezzo ti buttano da una parte e mezzo dall'altra”. Così sfasciavano e saccheggiavano.

   Anche se quando c’eravamo noi non c'era quasi più niente da saccheggiare. 

  Noi dormivamo nelle camere del Palazzo e allora appena io potevo entravo e mi infilavo nei grandi alloggi che c'erano. Insieme a me sono entrati anche altri sette o otto, abbiamo visto lo sfarzo, il lusso che c'era, cose indescrivibili. E allora gli altri: “Bisogna rompere tutto!”  

“No, no, è malfatto. Bisogna tenerle queste cose qua perché…”.

“Ma sono del re, sono della casa regnante!”. 

“Ma guarda, oramai sono nostre, sono dell'Italia”. Ce n'erano che non riuscivi a tenerli…Appena entrati in quei posti continuavano a distruggere. C'erano ancora due porte, erano una cosa eccezionale per come erano fatte. Una siamo riusciti a aprirla ma l'avevano già rotta. Era rimasta l'altra. Mi sono messo davanti: “Voglio vedere se avete il coraggio di sparare dentro se mi metto io davanti. Insomma, non si fa così”. E loro quasi quasi mi han riso dietro. “C'è sempre il più furbo di tutti che fa queste cose qua. Eh eh!”. 

   Tra di loro c' erano persone che conoscevo, e altri che invece non volevano sentirne parlare. Comunque sono riuscito a non lasciarla rompere.

   Dico: “Non si può e allora me la porto a casa io. Allora mi son fatto aiutare da un altro, l'abbiamo scardinata e il giorno dopo siamo venuti giù quando ci han mandati a Moncalieri. Io l'ho presa, l'ho caricata sul camion che ci ha seguito a Moncalieri. Dato che la potevi aprire, ho visto che dentro c'era uno specchio enorme, teneva tutta la porta, poi era tutto trafilato, con una riga dentro, sembrava in oro, proprio una cosa bellissima. Pensavo… questa porta al mattino, dobbiamo pettinarci, dobbiamo uscire e ci vuole uno specchio. L’abbiamo portata così lì a Moncalieri. 

   Avevo però lasciato il Palazzo un po' più tranquillo e tutte le bestie le ho mandate via dal Palazzo Reale, perché ce n’erano che avrebbero distrutto tutto. Gente che arrivava a fare i propri bisogni nelle stanze, apposta per fare dispetto al re. 

“Ma lo fai a tutti noi il dispetto, perché vuoi fare quelle cose lì?”. Eppure non c’era niente da fare.

   Ho portato quella porta a Moncalieri, poi dopo due o tre giorni ho trovato un camion che andava a Canale per ritirare della roba e allora sono andato anch'io.

 
   Ho caricato la porta sopra quel camion. La storia successiva di questa porta è bene poi non raccontarla.              

Basti dire che a casa mia non è mai arrivata.

 


9. Villastellone, 26 aprile 1945 –
Con il Bazooka

    Durante il combattimento è arrivata una donna con un bambino in braccio e ci ha fatto attraversare tutto un grande cortile, ci ha portati ad un caseggiato che guardava dove erano radunati i tedeschi. Il castello era vicino all’oratorio. Non potevamo entrare dall'entrata principale perché dovevamo passare davanti ai tedeschi; allora con una scala a pioli siamo saliti su e siamo entrati dalla finestra in una stanza. C'era lì una signora abbastanza anziana con la corona del rosario in mano che pregava, diceva: “Ma cosa fate adesso, cosa fate? Mi raccomando, non sporcate niente”. E noi abbiamo detto: “Stia tranquilla signora che noi non sporchiamo niente, non tocchiamo per niente, nessuna roba che c'è qua”. Dai vetri si vedeva bene attraverso anche il tendaggio perché era un tendaggio già abbastanza logoro che era trasparentissimo. Allora il Baravalle [ndr. Donato]  molto preparato, ha piazzato il bazooka per mettere a tacere la mitraglia tedesca. Sono bastati due suoi spari per distruggere la postazione tedesca. Al primo colpo sono partiti non soltanto i vetri ma anche tutta l'intelaiatura della finestra. 

   Il bazooka ha lo sfogo della fiamma di dietro, così tremendo che noi non ce l'immaginavamo. All'aperto non faceva così, ma essendo in un locale chiuso, i piatti di quella povera donna sono partiti tutti … è stato proprio un macello. L’abbiamo guardata in faccia, lei ci guardava e ci diceva: “Non posso più nemmeno piangere, non posso più dire niente”. “Stia tranquilla signora che non succede niente”. Le era già successo, povera donna. 

 

 


10. Torino – fine aprile 1945 – Ci hanno sparato dalla finestra

    Intanto nei giorni che ci siamo fermati a Torino e Moncalieri si andava e veniva e c'era sempre da fare la guardia.

   Mi ricordo che un giorno ho trovato tre partigiani che mi hanno detto: “Sei solo? Allora vieni con noi, dobbiamo andare ad arrestare uno, siamo tre, tu fai quattro, così siamo a posto. Ne mettiamo uno di fuori e tre vanno dentro”. Ma io non sapevo né dove andavano, né cosa si andava a fare, ma il mio impeto che avevo da sempre di seguire tutto mi ha spinto a seguirli.

   Mentre andavamo giù, loro tre e io facevo il quarto a lato, sentiamo sparare da una finestra. Quello in mezzo, di fianco a me, ha soltanto detto: “Aahh…”, poi è caduto per terra fulminato, è stato preso proprio in testa, al centro del cranio… è stato ucciso sul colpo. Inginocchiati per terra davanti a lui, abbiamo rivolto subito lo sguardo su, verso le case prospicienti. Lì attorno si sono ammucchiate delle persone che dicevano: “Hanno sparato da quella finestra là”

Allora siamo saliti su ed io, sempre il solito cretino, vado lì alla porta, suono il campanello e batto sulla porta con le mani. Ma mentre battevo ho sentito l'irruenza di questo amico che mi prendeva e mi buttava per terra dall’altra parte: “Ma sei pazzo!? Quello lì spara!!”. E mentre diceva quella cosa lì ha sparato cinque colpi nel portoncino. Poi ha detto: “Non muovetevi”. E con il calcio del mitra ha rotto il sopraluce del portoncino. In quei palazzi hanno il lucernario sopra le porte, a Torino ce ne sono ancora adesso; poi ha preso una bomba a mano, tolto la sicura e poi l’ha buttata  dentro. Ci siamo coricati per terra, la bomba è esplosa, abbiamo aspettato un attimo. La porta si è aperta, quello era stato colpito, l'ha preso proprio lì in mezzo alle gambe e gli ha portato via tutto.  E’ caduto riverso sul letto. Tutto sangue su quel letto, per terra, dappertutto…Abbiamo guardato se c'era qualcun'altro, ma niente: era solo. 

   Intanto alla porta arrivavano gli inquilini del palazzo che prima io avevo già avvertito: “Andiamo su ad arrestarlo e dato che la legge ci dà il permesso che quello che prendiamo resta nostro, allora lo ripartiamo tra tutti”. Così tutti sono entrati… chi aveva dei cestini, chi aveva delle ceste, hanno portato via da quella casa tanta roba da mangiare. Il cecchino era un dentista; con tutto quel cibo avrebbe potuto resistere per almeno un mese. Io ho preso due libretti che ho ancora oggi nel mio archivio, uno è il nuovo Codice Civile e un altro è la Divina Commedia. C’è la firma, forse la sua, di padrone del libro. C'è scritto Torino 17/04/1945 - XXIII ° anno dell'era fascista.

   Tutto quello che c'era nella casa parlava di fascio, lui era convinto al cento per cento. 

 

11. A quest'ora eri già a farti mangiare dai vermi

    In seguito ad uno scontro armato, con dei feriti, ci hanno detto di andare a prendere un fascista: “Bisogna andare a prendere quello là perché è uno che fa propaganda e poi è pericoloso”.

   Lui ha cercato di scappare. Due pallottole dentro la testa gli hanno tirato. Una davanti e una di dietro. Gli avevano sparato da tre, quattro metri di distanza.

   Si vedeva che era un fascista, il partigiano gli ha sparato perché scappava. L'ha portato su, l'ha preso sulle spalle, l'ha accompagnato al nostro accampamento.

   “Adesso cosa facciamo con questo ferito?”. Tutti volevano ammazzarlo. “Tanto soffre. È inutile, non si salva perché ha una pallottola in testa. Anzi due”.

   Allora noi ci siamo messi d'accordo. “Non ammazziamolo, perché purtroppo la vita è una vita sola”. Siamo riusciti a sconsigliare tutti gli altri partigiani, l'abbiamo caricato su una macchina, l'abbiamo portato a Canale all'ospedale. Lì è arrivato anche il dottor Appendino che era il capo, era lui che si occupava di tutto all'ospedale.

   Il dottore: “Cosa c'è?  C'è un ferito qua? Cosa ha fatto?”.

 “Ha due pallottole in testa”.

 “E ma adesso come facciamo?”. L'ha portato dentro, poi ci ha detto ancora queste parole. “Adesso se arrivano i tedeschi, ci ammazzano tutti qua. Se vedono qui voi partigiani…”. Noi eravamo vestiti da partigiani. Per rappresaglia, senz'altro potevano uccidere chiunque.

   Ma poi il dottore si è messo lì con una determinazione, perché era un dottore, capace di fare tutto, dai parti, a curare il cuore, esperto in tutti i rami.

   Si è messo lì e gli ha tolto quelle pallottole. Poi quel ragazzo, l'hanno ricoverato forse di sopra nel solaio.

   Qualche giorno dopo siamo andati a trovarlo, per vedere quel ragazzo come stava.

“Allora come va?”. Non ci ha risposto. Niente. “Allora se non vuole parlare, cosa vuole fare? Cosa facciamo? Andiamo via?”. Abbiamo salutato, anzi gli ho toccato la mano e lui ha girato la testa dall'altra parte.

   Niente da fare. Poteva dire semplicemente grazie per il nostro intervento.

“Se non c’eravamo noi, tu a quest'ora eri già sotto a farti mangiare dai vermi.

Dai vermi”.

 

 12. Ho capito solo tre parole. E prese tante botte.

    Dal 16 aprile del ’44 al 27 aprile del ’45, in poco più di un anno, trenta persone sono state uccise nel paese di Canale. La nostra Brigata ha perso sedici partigiani (più dieci fuori Canale), poi sette repubblicani e un tedesco. [Ndr. il resto erano civili]

   Il tedesco non sono riuscito a capire il perché sia successo, dove fosse caduto, non l'ho visto con i miei occhi. L'avevano caricato su un camion di botti di vino, almeno erano così le voci. Io non ho potuto avvicinarle per sentire se erano piene o vuote. Loro, i tedeschi, erano sopra queste botti, l'hanno portato su, l'hanno portato in piazza.

   Io in quei giorni ero su nei boschi, ma ero venuto a casa per andare dal dottore Appendino per farmi levare un dente perché avevo la faccia gonfia. Ero andato lì dalla farmacia che si trovava a fianco alla parrocchia; normalmente si faceva così, battevi un calcio, forse anche due nelle porte lì del negozio e immediatamente accendevano la luce, veniva fuori qualcuno e invece non è venuto nessuno. Ho continuato ripetendo questi due calci, ma nessuno si è mosso. In quel momento ho sentito questo autocarro che arrivava… A quei tempi non c’era un via vai di autocarri, di macchine, allora sono stato lì fermo. C'era il coprifuoco, ma con il coprifuoco succedeva che, a forza di rimanere nel buio, non so spiegarlo fisiologicamente come poteva accadere, ma tu riuscivi a vedere anche nell'ombra, non tutto, ma qualcosa di più. Ebbene, quando mi è passato di fianco ho visto questo camion pieno di botti e su ogni botte c'erano uno, due tedeschi con l'elmetto in testa che andavano su piano piano piano.

   Si son fermati davanti alla chiesa di San Bernardino e ho sentito che qualcuno è sceso giù dal camion, sentivo gli scarponi che battevano sul selciato. Allora son venuto giù, son passato lì dalla via che esce da Piazza San Giovanni e mi sono trovato davanti al peso pubblico. Sento uno che viene giù e penso: “Questo qua è un partigiano che naturalmente va giù verso la chiesa e lo possono prendere proprio da stupido”. Allora vado incontro a quel rumore di passi perché non lo vedevo e quando gli sono quasi vicino dico: “Fa’ attenzione!!”. Ma vedo uno molto più alto di me. Vedo quelle SS sulla giacca, con quell'elmetto. Lui mi prende per i capelli così, mi alza da terra, poi mi dà uno schiaffone che mi è arrivato proprio sulla medicazione che avevo. Allora dalla bocca mi è uscito un po' di tutto. Mi metto le mani in tasca per prendere il fazzoletto per pulirmi e nello stesso tempo ho tolto la sicura alla pistola pensando: “Fin quando si permette di picchiarmi così, pazienza. Non ne ho voglia di prenderle, ma le metto con le altre…”.

   E allora lui continuava con una parola che capivo. Sono tre le parole che ho capito. Una quando mi ha detto partigian e continuava a dire tante cose, ma l'unica cosa che capivo era partigian. E io: “No, no partigian, guarda c'ho tutta la faccia gonfia”. In realtà non avevo più, adesso, la faccia gonfia, ma lui l'aveva vista prima.    Mentre lui continuava a picchiarmi capivo che magari aveva più paura di me, perché io non mi muovevo, stavo lì passivo. E lui invece continuava a battermi, continuava a parlare e a battermi. Mentre mi batteva sono andato a finire contro una casa che c'è ancora adesso, sarebbe la casa del dottor Calorio. E allora lì le prendevo doppie, perché a ogni schiaffone battevo anche un colpo della testa contro il portoncino.

   Allora mi sono detto: “Qua bisogna anche che cerchi di capire come è fatto questo signore”. Allora son caduto in avanti e cadendo ho fatto in modo di toccarlo dietro. Lui aveva la pistola dentro la fondina e toccando così con le dita, in un attimo ho capito che aveva ancora il meccanismo che fermava il gancio e aveva il fucile Mauser a tracolla. Allora ho pensato: “Finché mi batte pazienza, le armi non riesce a usarle”. Perché per tirare fuori il fucile bisogna farlo uscire dalla spalla e per prendere la pistola di dietro devi toglierla dalla custodia.

   Ad un bel momento arriva un altro tedesco e dice: “Fritz, Fritz!”.  Era la seconda parola che ho capito, penso il nome dell’uomo; e questo qua risponde: “Oh oh”. Si vede che si chiamava Fritz; allora si è fermato più o meno lì davanti al peso pubblico.  Magari gli aveva risposto: “Vieni avanti o Non posso venire”, qualcosa di simile. Quello continuava a chiamarlo e io a questo punto ho pensato che bisognava prendere una decisione. Avrei preso tutte le botte che lui era disposto a darmi, perché capivo che se io usavo la rivoltella che avevo in tasca, l'avrei preso nel basso ventre e lui cadeva a terra senza fare un gesto. Però avrebbero fatto una rappresaglia, lì attorno. Se potevo evitarla avrei avuto più piacere.

   Lui continuava a battermi e quello là continuava a chiamare. Allora lui mi prende per i capelli, mi alza, mi gira all'incontrario, mi dà un calcione dietro, non so cosa avesse avuto, i chiodi sotto quegli scarponi. Mi ha strappato il giubbotto, mi ha strappato il pantalone, mi ha strappato le mutandine che avevo sotto e mi ha fatto una grossa ferita lì al fondo schiena. E mi ha detto, la terza parola che poi ho capito: “Raus!!”.(Fuori!). Di corsa, ho ubbidito. Sono così venuto su, ma invece di girare a sinistra, per non svelare dove abitavo [Ndr Paulin abitava in Via Sant’Andrea, lato sinistro dell’ospedale di Canale], ho continuato ad andare su verso la collina.

   Quando sono stato lì dove c'era il portoncino che andava nell'ospedale, ho visto che c'era un po' di movimento. Si vede che quel tedesco o l'avevano portato lì o erano andati a chiamare qualcuno per soccorrerlo.

   Allora me ne sono andato per i fatti miei. Tutto è finito lì, almeno per me…

   Tutto questo per dire che i momenti erano quelli che erano.

 


13. Il mio amico Bill venuto dal cielo

Io ho preso parte, verso la metà del mese di Marzo 1945, alla “Protezione del lancio di viveri, armi e munizioni” che si fece nelle valli tra S. Damiano d’Asti e Govone.

Per evitare che il materiale, che ci mandavano gli Alleati, potesse cadere nelle mani dei nazifascisti, venivano inviati gruppi di Partigiani, reclutati tra i residenti nella zona, a vigilare sulle operazioni di recupero.

Io ero posto su una collinetta a ridosso della valle, dove veniva eseguito il lancio, alla distanza di una trentina di metri da ognuno dei miei compagni.

Avevamo preparato i falò come ci aveva detto di fare il nostro caposquadra… per esempio facevamo come una croce oppure sempre una croce ma fatta in altro modo, cambiava ogni volta secondo gli accordi già presi prima. Gli aerei che effettuarono il lancio furono due e lanciarono tanti “bidoni”, come venivano chiamati questi pacchi nel nostro gergo. 

Ad un certo punto notai che tra i bidoni, era sceso, piano piano appeso ad un paracadute, un uomo a non più di 20-30 metri da me.

Era un paracadutista, non ne avevo mai visto uno, involontariamente cadde tra i rami di un grosso albero rimanendovi impigliato.

Mi precipitai ai piedi dell’albero e riconobbi un militare americano. Dopo averlo invitato a scendere gli feci capire che era capitato in mezzo ai Partigiani e perciò tra amici.

Lui, naturalmente, non comprendendo la mia lingua non voleva scendere, anzi mi puntava pericolosamente contro il suo fucile Thompson automatico.

 Cercai in tutti i modi di spiegargli che ero un volontario italiano che combatteva al suo fianco contro i nazifascisti, ma lui non comprendendo continuava a minacciarmi.

Ad un certo punto escogitai una mossa che si dimostrò efficace; mi avvicinai ai piedi dell’albero, posai il mio fucile per terra bene in vista insieme alla rivoltella ed al mio giubbotto facendogli capire di essere completamente disarmato e che quindi per lui non c’era alcun pericolo e pertanto poteva scendere tranquillamente.

Questo mio gesto lo convinse, piano piano si slacciò le cinghie del paracadute e guardingo scese dall’albero.

Sarà stato uno e 90, se non di più. Appena toccò terra mi fissò negli occhi e con immensa gioia mi abbracciò facendomi un po’ male perché grande grosso così, poco che stringesse gli ho dovuto dire basta…così ci sedemmo lì per terra.

Immediatamente si comportò da americano. Da una tasca tirò fuori cinque pacchetti da 20 sigarette, da noi in Italia non c’erano ancora, e dall’altra cinque tavolette di cioccolato e tra un abbraccio ed una stretta di mano il nostro colloquio si intrecciò come tra due vecchi amici: lui in inglese mi spiegava le azioni di guerra americana ed io amichevolmente, in piemontese, gli narravo le avventure partigiane.

Salimmo poi sull’albero dove sganciammo il paracadute impigliato e lo portammo a terra.

La nostra amicizia in poco tempo si intrecciò ed iniziando dalle presentazioni io gli dissi che il mio nome di guerra era Walter, mentre feci fatica a capire il suo nome. Non riuscivo a pronunciarlo. Ha provato due o tre volte a dirmelo, ma io non capivo; gli ho detto ad un certo punto: - Guarda, non stiamo lì a perdere del tempo, io ti chiamo Bill… sei contento?  e lui di buon grado accettò.

Ritornammo poi in piena notte al Castello di Cisterna portando il prezioso carico a noi tanto necessario.

Accompagnai Bill alla sede dove era dislocata la Missione Alleata, con la promessa di andarlo a trovare presto.

Il mattino seguente, appena i miei amici Partigiani seppero che cos’era successo, ma più di tutto quando ricevettero in parti uguali le sigarette e le tavolette di cioccolato, mi invitarono a raggiungerlo, con la speranza di portare a casa altri regali.

Quando andavo a trovarlo, viste le misure di sicurezza che non permettevano l’accesso, io dall’atrio antistante chiamavo ad alta voce “Bill” e lui, se era disponibile, immediatamente accorreva.

Non mi sono mai interessato circa le sue precise generalità e pertanto quando con la mia Brigata ci spostammo, persi le sue tracce ed ancora oggi non so se sia sopravvissuto alla guerra e sia ancora vivo.

Per me comunque è stata una bellissima vicenda ed ancora oggi, a distanza di oltre 60 anni, ne conservo un delicato ricordo.

 

14. Il perdono: l'arma più forte

 2009 - Racconto di Paulin al castello di Cisterna d'Asti

    Essere qua per me è un motivo che mi dà molta commozione perché mi fa ricordare quando a diciannove anni mi trovavo qua col gruppo della 23ª Brigata. Ho lasciato tanti ricordi in questo castello e uno in particolare. Venendo su ho visto che c'è l'entrata di un locale dove avevamo messo dentro una trentina di prigionieri.

  Lì è successa una mia cosa particolare.

  Il 28 di giugno del ‘44 io ero a casa, perché ogni tanto bisognava cambiarsi i vestiti e allora si veniva a casa; la mamma, eravamo due fratelli partigiani, io e Francesco, ci preparava una tinozza, con un po' di acqua calda e facevamo il bagno. Ci siamo coricati e prima dell'alba abbiamo avuto la sorpresa, a causa penso di una spia… anzi sarei disponibile a farne il nome, ma non l'ho mai fatto, me lo tengo per me e l'ho perdonato già in partenza. Comunque ha dato il nostro nome, che eravamo due fratelli, che eravamo lì. Mio fratello più anziano, aveva cinque anni più di me, svelto si è messo sotto il letto, quei letti di una volta, alti, con le traverse.

  Però quando i fascisti sono entrati, in due, avevano un cagnolino. Io ringrazio il Signore che quel cagnolino era più o meno della mia forza, non sapeva né abbaiare né niente. Stava lì…zitto. Qualunque cane vedendo un uomo sotto il letto lo avrebbe segnalato e quello sarebbe stato passato per le armi immediatamente. Comunque niente. Uno dei due continuava a dirmi che ero partigiano. Io ho risposto: “Ma no, io niente”. 

“E  tuo fratello?”. 

“Mio fratello è militare, non l’ho più visto, non è ancora arrivato”.

   E con tutto ciò lui ha continuato a picchiarmi abbastanza forte e più che con le mani mi picchiava col calcio del mitra; perdevo sangue dappertutto. Da quando erano entrati io continuavo a prendermi quei quattro stracci che avevo da vestirmi, perché mi dicevo: “ Se mi ammazzano sulla piazza è finita, ma se mi portano in Germania bisogna che abbia qualcosa addosso”. E come io allungavo la mano, lui con il mitra mi picchiava sul braccio; io non ho mai mollato e mi sono messo addosso quello che ho potuto e nello stesso tempo qualcosa me lo mettevo in tasca. Più di tutto mi preoccupava fare in fretta per venire via e portare via da lì quel cane.

    Quando arriviamo nel cortile, mia mamma si mette a gridare. Mi viene incontro, così il fascista, io non penso che l'abbia fatto apposta, mentre lei veniva verso di me ha tentato di fermarla e allora lei ha perso l’equilibrio, andando giù riversa a terra.

   Io: “Mamma… mamma”, mi sono chinato sopra di lei. Lui col calcio del mitra mi ha spaccato lì dietro la testa, così io perdevo il sangue che andava sulla faccia di mia mamma. Allora lui mi ha preso per i capelli e mi ha tirato su continuando a dirmi:  “Saluta tua mamma perché tanto adesso ti porto in piazza, ti ammazzo là, così che  la gente ti veda”. Poi dice a mia mamma: “Vieni a vedere che fine che fa tuo figlio!”.  Lei piangeva… come può una mamma. Con tutto ciò arriviamo sulla piazza e lì il comandante di questo plotone che era in rastrellamento, vedendomi che perdevo sangue dappertutto dice: “Questo qua come l'avete conciato? Chi è che fatto una cosa simile?”.  Uno ha subito detto: “ E’ stato lui”.

“Sì, sono stato io. Ma adesso siamo all'epilogo, questo qua lo ammazzo e così è finita”.

 E il comandante dice: “Tu non ammazzi nessuno!”.

“Ma come?” e fa per spararmi.

   Lui, il comandante, gli alza il mitra dal quale parte una raffica verso l’alto. Comunque ha fatto segno ad altri militari che lo tenessero fermo.

   Il nostro capo della brigata aveva un contatto con una signorina che falsificava i documenti, mi aveva fatto un documento in cui aveva scritto che io avevo un anno di convalescenza. L'anno finiva al 2 di luglio, qui eravamo il 28 di giugno. Ho chiesto: “Ma se lei facendo il giro del suo rastrellamento passa di qui nei prossimi giorni, mi porta via lei?”.

“No, no, no, hai tua mamma, come mi hai detto. E allora prima cosa chiedile scusa per quello che ti ha fatto questo delinquente”. Non capivo nemmeno perché la prendesse tanto a cuore nello stato in cui ero capitato. Comunque mi ha mandato a casa. 

   Sono passati diversi giorni prima che mi rimettessi bene a posto, poi tutto è passato.

    Al 20 marzo del ‘45 a Vaglierano c'era un posto di blocco dove c'era la stazione ferroviaria. Siamo andati lì di notte, abbiamo assaltato per poter prendere delle armi e ci sono stati due loro morti. Noi un ferito, leggero e nient'altro. Abbiamo preso una ventina di prigionieri e li abbiamo portati al Castello di Cisterna.

   L’anno prima, quando ero rientrato in forza di nuovo con la brigata Canale, avevo  descritto quell’ individuo che mi aveva fatto tutto questo male… me lo vedo ancora adesso, so perfino quanti capelli aveva in testa, talmente mi ha lasciato l'impressione.

   Al mattino, io dormivo appunto qui vicino, mi dicono: “Sai che tra quelli che abbiamo preso questa notte c'è anche quel disgraziato che ti ha fatto tanto male?”. “Io non so, non l'ho visto, era notte”.

“Andiamo su, andiamo su, lo ammazziamo e così lo mettiamo a posto, aggiustiamo i conti!”.

   Sono venuto su insieme a loro e quando sono arrivato sono entrato lì in quella porta e me li son visti là nella paglia.  L'ho subito riconosciuto e anche lui ha riconosciuto me. Ho fatto finta di niente. Ho fatto un giro e loro mi stuzzicavano: “ E’ lì, quello lì, quello lì, dagli un calcio… è lui”.  

“Lasciatemi stare, io devo pensare, devo cercare di essere sicuro di quello che dico… Questo qua che volete dire, questo qua non l'ho mai visto”.

  Eh, allora gli dico: “Per favore, alzati in piedi”. Lui si è alzato: “Dimmi come ti chiami, così io ti sento parlare e se sei quello che mi ha picchiato ti riconosco”.    Nessuno ha capito quello che ha detto, talmente era preso dal panico, talmente faceva pena, in un certo senso.

   Io ho continuato a dire: “Io questo qua non lo conosco, non l'ho mai visto, quindi andiamo pure via. Quello che vi hanno indicato a voi altri, qua non c'è”.

   Per me è stato il giorno più bello della mia vita perché potevo avere 

questo signore sulla mia coscienza; se lo sarebbe meritato perché lui voleva ammazzarmi a tutti i costi. Ma, comunque, non c'è riuscito e allora io l'ho perdonato.

   Mi sono detto: “Guarda, il suo comandante poteva o ammazzarmi lui o lasciarmi ammazzare da questo qui.  Ma mi ha salvato la vita e io gliela salvo a questo, anche se non se lo meriterebbe”. E ne sono stato proprio soddisfattissimo

   Lui ha capito la mia scelta di non indicarlo senza farlo capire ai miei, e quindi passando di lì me lo son visto di nuovo in mezzo agli altri...

 


15. La “parola” dei fascist

     Nel freddo inverno del ’44 gran parte della Brigata decide di resistere.

   Avevamo con noi nella brigata un Toscano, mi sembra, [Ndr. era di Copparo in provincia di Ferrara, Emilia Romagna], proveniva da una formazione garibaldina che operava in Val di Lanzo. Era da pochi giorni con noi motivato da valori di Libertà.

   Alla vigilia del Natale del ’44, l'abbiamo portato a casa nostra, siamo arrivati in tre, io, lui e mio fratello Cecu a mangiare. Non so cosa la santa donna di nostra mamma ci abbia potuto fare. Comunque buono, buono, tutti e tre a decantare comunque quello che si mangiava. 

   Si chiamava Marino Carletti. Era, specialmente, amico di mio fratello Cecu, che aveva già ventiquattro anni. Lui ne aveva tre di meno, ventuno.

   L'ha pregato, ma proprio supplicato: “Non andare più su quella collina, sta qua con noi”. 

   Erano tanto amici mio fratello con quel signore lì, ma lui non ha accettato. E’ andato lì dove li hanno poi presi il giorno di Natale. La cosa è anche andata un po' per colpa nostra, nel senso che un nostro gruppo è andato a prendere un vitello a un contadino. Noi quando avevamo i soldi lo pagavamo subito, altrimenti facevamo un buono, che poi sono stati sempre pagati dopo la guerra. Per questo contadino è stato più il dispiacere che gli hanno fatto, perché il vitello gliel'han pagato. 

   Così lui nella notte del 24 sul 25 ha portato su quella collina i fascisti per prenderli.

   Mio fratello gli diceva da tempo: “Marino, non andare più su quella collina là, perché a lungo andare, diventa anche più pericolosa”. Ma lui più di tutto non voleva pesare sulla nostra famiglia. Aveva capito che ciò che sarebbe servito da mangiare non era roba che potevamo avere. 

   La collina in questione era quella vicino a Canale, chiamata frazione Anime. Per andare a Santo Stefano. 

   I fascisti sono arrivati, ma per fortuna, hanno preso solo tre nostri partigiani. Poco lontani c'erano dieci o dodici partigiani che potevano prendere, ma chi li ha portati sul posto non sapeva che c'erano. Quando hanno sentito i colpi sono scappati giù che, lo dicono ancora quelli lì che sono ancora viventi [Ndr. al momento del racconto di Paulin] gli passavano le pallottole sopra la testa mentre correvano giù verso la valle. 

   I fascisti sono venuti su all'improvviso, chiamati da quel signore là. Con i camion fino all’inizio della collina, dove c'è la strada che va su per andare alla frazione Anime, poi sono venuti a piedi. In cinquanta o sessanta, non so più. 

   Il tutto per la vendetta di questo contadino che gli avevano preso il vitello.

   I tre nostri partigiani erano Marino Carletti di ventuno anni, Giuseppe Costa di ventuno anni detto Punu, e Gian Battista Gioetti di diciannove anni, nome di battaglia Tista. Tutti facevano parte della Brigata Canale, orfani o con situazioni familiari difficili. Trascorrevano quella vigilia di Natale in fraterna amicizia, cementata dal comune ideale di lotta.

   Li hanno presi e massacrati di botte, tutti sanguinanti, tutto quanto più brutto da far vedere. 

   Il giorno di Natale, faceva freddo e con un po' di nevischio che veniva giù, li hanno messi sul camion in bella vista e li hanno fatti andare a Fossano, poi Savigliano, poi sono andati lì dove li hanno poi uccisi, a Cigliano Vercellese. 

  Il grosso del presidio fascista che c'era a Cigliano, era andato a fare dei rastrellamenti. In quei giorni ne avevano prese tante, avevano anche avuto dei caduti. Erano arrabbiati e forse un po’ brilli, così quando hanno visto arrivare i camion con i loro camerati e i tre nostri partigiani prigionieri, per vendetta e rappresaglia li hanno voluti tirare giù e ammazzarli lì a Cigliano. 

   Nonostante il loro maggiore che comandava la colonna ammettesse: “Ma io ho preso un impegno”. L’ aveva deciso con il nostro comandante Ceka che avrebbe fatto uno scambio: ridava i nostri tre e noi gli davamo tre dei loro in prigione a Torino. Ma non hanno sentito ragioni. 

   Noi siamo rimasti sconvolti e increduli perché c’era questo accordo per lo scambio.

   È andata a finire invece tragicamente. Questa è la parola data dai fascisti.

   Gian Battista, il più giovane, ha cercato di scappare.  Ogni volta che andiamo lì per la commemorazione e rifaccio tutto il percorso, vedo che è corso per almeno settanta/ottanta metri, sbalordendo tutti dopo due giorni di ogni sorta di sevizie che gli avevano fatto.. È scappato di qua, andato al fondo lì, ha girato là, è venuto di nuovo qua, poi la strada finisce e c'è un passaggio, un arco un po' lungo che si passa sotto e c'è un portone. Il portone era sempre lasciato aperto ma si vede che, sentendo gli spari di quelli che arrivavano dai rastrellamenti della zona, qualcuno l'ha chiuso per paura. Lui quando ha trovato il portone chiuso si è messo con forza a spingerlo… ma l'hanno preso per i capelli, portato via e portato là dove c’erano già i due compagni per terra e hanno così ancora ammazzato lui lì. 

   Quasi, quasi si salvava… Ma non ce l’ha fatta.  

    L’amicizia di mio fratello Cecu con Marino Carletti era così forte che dopo aver avuto un figlio, purtroppo morto quando aveva da sei a otto mesi e che portava il nome di nostro fratello Pierino disperso in Russia, quando poi ne hanno avuto un secondo, nel 1955, l’hanno chiamato Marino in suo ricordo.

  

16. L’ultima cena


Mi sono interessato a lui perché l'abbiamo preso il giorno 8 marzo del ‘45. Verso mezzanotte siamo arrivati lì, sotto una borgata di Cisterna. Avevamo una decina di prigionieri nelle nostre mani ed il nostro comando stava indagando su alcuni di loro. Al mattino le voci han subito fatto il giro e così tutti quelli che sono arrivati da un paese dell’Astigiano han puntato il dito contro di lui che era un omaccione grande grosso, enorme. Lo accusavano di entrare nelle case, a lui non interessava rubare, ma soltanto trovare una donna, poteva essere una ragazzina o una nonna, per lui era uguale… violentava le donne. Una cosa dell'altro mondo. Quando l'abbiamo preso noi, era nascosto là in un fosso, lì non c'era nessuno da poter violentare…
Sentendo che la posizione di quel militare si stava aggravando sempre di più, pensando al peggio, dati i gravi momenti in cui vivevamo, io mi sono messo subito alla ricerca di un Sacerdote, nel caso ce ne fosse stato bisogno. Facevo sempre così…

Quella volta lì è stata una cosa che non riuscivo nemmeno a farmene una ragione… non sono riuscito a trovarlo, è stata l'unica volta che non sono riuscito.

Mi ha detto poi il mio amico Don Carlo: - E’ stata una grazia del Signore perché se fosse andato un sacerdote, lui non lo avrebbe nemmeno lasciato entrare in quella cantina in cui era, invece con te è stata un'altra cosa, lui ha potuto pregare e dirti diverse cose, così.

Rientrando alla sera nell’accampamento per prima cosa sono andato a chiedere ai nostri Comandanti quali erano le decisioni prese nei confronti del militare. Anche se non me l’hanno detto chiaro, ho capito subito che era stato giudicato colpevole e che la mattina seguente sarebbe stato fucilato.

Quella notizia è stata per me una doccia fredda, non mi sembrava possibile l’idea di poter eliminare a sangue freddo una persona, anche se colpevole di gravi atrocità, ma me ne feci una ragione pensando che diversi nostri compagni completamente innocenti non avevano avuto nemmeno quella specie di processo…Inoltre bisognava comprendere che eravamo in guerra e si sa ... la guerra è quella che è.

 Io, a quel punto, avevo la speranza di poter fare qualcosa per lui, non si poteva lasciar morire una persona così, senza dargli un aiuto cristiano…Ho pensato che potevo tenergli compagnia…Sono andato in alcune case di contadini che mi hanno dato una grossa pagnotta di pane, un pezzo di formaggio ed un pezzo di salame, dal nostro deposito ho preso una gavetta di vino e ho trovato qualche sigaretta dai miei compagni. Poi sono entrato nella cantina dove lui era prigioniero.

Lui mi ha chiesto perché ero andato da lui con quelle cose, dicendomi: - Allora questa è la mia ultima cena? Io gli ho risposto che ero andato lì a trovarlo, non per quella cosa che lui pensava. Ma che essendo in guerra tutto poteva succedere, a lui come a me. Lui ha mangiato con appetito…era grande e grosso. Io pensavo a come fare per introdurre il discorso religioso…gli ho detto che stavamo vivendo periodi brutti, della guerra, che poteva capitare di tutto, che dovevamo tenerci pronti e metterci nelle mani del Padre Nostro. Ma lui non mi ascoltava. Sono andato avanti un bel po’, ma poi lui si è messo a gridare: - Basta, queste cose tientele per te… io non credo alle fandonie che dicono i preti solo per far stare buona la gente. Gridava, si alzava in piedi, poi sbatteva i pugni sulla terra battuta che c’era in quella cantina

Io mi sono detto: - Oramai la mia missione è finita qua, non riesco nemmeno a calmarlo, niente… Ma in un angolo là mi son visto come un cerchio, una luce sfolgorante proprio… guardavo, ma lui non la vedeva. Ne è uscito fuori il volto di una donna. Io ho persino pensato: - Sarà la Madonna… E mi dice: - Parlagli di sua mamma, di sua mamma, di sua mamma. Me lo dice tre volte, poi scompare. Allora io gli ho detto: - Guardiamoci bene in faccia, viviamo in un momento, diciamo così, gravissimo, può succedere a te come può succedere a me e quindi il nostro pensiero va alle nostre mamme che han fatto tanti sacrifici. Lui ha emesso un grido enorme: - Tu non dovevi menzionare mia mamma, perché mia mamma è stata una santa, ero io un grande delinquente, ero la macchia della famiglia, la pecora nera della famiglia e mia mamma l'ho fatta piangere tante volte. Poi sbattevo la porta, andavo via e quando rientravo lei era di nuovo con le mani per proteggermi, per perdonarmi… Poi poco per volta si è calmato e mi ha detto che lui aveva fatto tanto male nella sua vita, ma che il ricordo di sua mamma gli era sempre rimasto nel cuore, che voleva chiederle perdono. Al che io ho detto: - Diciamo qualche preghiera. E lui mi ha risposto: - Mi vergogno, non le so più, le ho dimenticato tutte. E io: - Bene, io le dico, tu le ripeti. E’ stata una cosa… perché sembra facile, ma io sapevo che ogni volta che passava un minuto era uno in meno che viveva e allora siamo andati avanti un po'. Dall' Ave Maria andavamo a finire nel Padre Nostro, dal Padre Nostro andavamo a finire nell’Io Credo… un pasticcio così. Ma non fa niente, abbiamo pregato venti minuti, mezz'ora, non so più, ma un bel po'; poi ci siamo abbracciati e lui piangeva. Le sue lacrime scendevano giù lungo la mia faccia, è stato proprio un momento commovente. Mi ha preso per le mani così, mi ha detto: - Stammi vicino. - Sta’ tranquillo, Io resterò con te fino alla fine. Forse non gli avrò nemmeno detto “ la fine” per non spaventarlo, ma lui oramai aveva già capito tutto, era molto intelligente. 

Poi ci siamo quasi addormentati. Poi saranno state le 4 del mattino, le 4 e mezzo, adesso non so più, abbiamo sentito dei passi con gli scarponi e lui mi dice: - Vengono qua per me? E mi prende così nel braccio. Due miei compagni partigiani sono entrati, e  lui mi ha chiesto: -  E’ l’ora? Allora mi ha abbracciato di nuovo, ora gli era tutto chiaro, ma era tranquillo, mi ha baciato e poi mi ha detto: - Ricordati sempre di me. E io gli ho risposto: -Sta’ tranquillo. Mi ricordo ancora giorno dopo giorno di quella persona… È stata un'esperienza particolare, una cosa commoventissima…

 Oltretutto, visto che era grande e grosso…se avesse voluto, poteva anche tentare la fuga, togliermi l’arma. Ma non l’ha fatto.

 

17. Non erano tutti uguali

    Gli mancava una mano, la mano destra.

Era una persona delicatissima, di lui ho questo ricordo.

Diceva: “Mi mandavano a Torino, da un posto all'altro a fare le commissioni che servivano. Con una mano finta nascosta con un guanto, un guanto nero. Sì che copriva, ma si vedeva che ero mutilato da una mano”.

  Nei suoi ricorrenti viaggi a Torino andava nei posti più stravaganti che ci potessero essere. Portandosi dietro, se fosse servita, la documentazione che aveva perso la mano, mi sembra forse in Russia.

   Quando era insieme alla Brigata di Gino Cattaneo avevano preso un tedesco. Un tedesco molto alto, proprio ben piantato, un bel ragazzo. Si sono chiesti: “Chissà vestito da borghese come starà meglio”. Così gli hanno trovato un paio di pantaloni, una camicia. Oh, che splendore. Sapeva leggere l'italiano, leggeva il giornale in mezzo ai boschi là dove eravamo accampati. Noi eravamo dislocati un po' più in qua.

   Ma un bel giorno: “Dov'è? Dov'è? Dov'è?”. Non l'han più trovato, lui era fuggito.

   Questo monco, non so più come lo chiamavano dato che non era con noi, un giorno era a Torino per le sue pratiche e passando in via Montegrappa, c’era una caserma.

   Ha visto che c'era un gruppo di tedeschi lì, ma a lui nessuno diceva niente con quella mano che ostentava proprio bene. Ma, ad un certo punto, si sente chiamare: “Partigiano, partigiano!!”. E lui: “Non respiravo più, camminavo con gli occhi chiusi, adesso mi ammazzano qua…andavo avanti e non sapevo dove mettevo i piedi. Se ci fosse stato un burrone, io ci andavo dentro senza accorgermi”. E quello lì gli corre dietro… lo prende e quando gli mette la mano sulla spalla, lui era convinto che lo volesse acciuffare. “Non ho più visto niente, non ho più capito niente. Lui continuava a parlarmi e io non lo vedevo talmente si era annebbiata la vista”.

“Ma non mi conosci? Non ti ricordi più quando eravamo nei boschi?”.

“Ah, già, ma sei tu?”.

“Sì, sì, sono io…”. E intanto il gruppo di tedeschi li guardavano tranquilli. Nessuno gli ha detto niente, niente.

 “Andiamo a prendere qualcosa?”. 

“No, perché c'ho premura, devo andare a prendere la corriera. Devo andare a prendere la corriera e devo andare a Canale”.

“Va bene, va bene. Salutami Gino, salutami tutti i compagni là”. L'ha abbracciato, si sono salutati.

   Forse era uno di quei tedeschi che han fatto la guerra perché erano obbligati a farla, non è che fosse un convinto nazista, probabilmente come ce n'erano altri, non è che lo fossero tutti….

 

 


18. Vacanze forzate ai Piloni - Sei tedeschi in pensione

    Quando ci siamo accampati ai Piloni di Montà il 16 aprile del ‘44 abbiamo avuto in consegna dal gruppo di Gino Cattaneo, nostro alleato, sei tedeschi che avevano preso loro. 

   Quando sono stati catturati dovevamo esserci anche noi della Brigata Canale, ma poi li ha presi Gino e li ha portati a noi. 

Ce li ha portati il 17 o 18 di aprile del ‘44. Li abbiamo accampati nella terza cappella della Via Crucis. 

   Li credevamo, al solito, aizzati contro gli italiani. Ma questi no, erano tutti vecchietti… non erano pericolosi.

Erano liberi di muoversi come volevano, non hanno mai dato disturbo, mai, mai.

   Li sorvegliava un partigiano solo, tanto di giorno come di notte.
Per la pipì si aggiustavano, qualunque punto andava bene e per la popò c’era una riva lì vicino. 

   Noi intanto “vivevamo” lì vicino in una stalla, per mangiare, dormire…. 

   Li abbiamo tenuti qui fino a quando siamo andati in località Saretto. Non li abbiamo scambiati… li abbiamo rimandati al proprietario (Cattaneo).

   Allo stesso prezzo che li avevamo pagati. Senza chiedere niente.
 
“Teneteli voi, tutto quello che vi danno tenetevelo pure…”. Ai Piloni siamo arrivati a metà di Aprile ’44 restando fino a fine mese Non potevi restare tanto nello stesso posto. Ci siamo così trasferiti al Saretto, poi scesi giù ai castagnun, poi alla Cascina Bianca nella zona di Diano d’Alba.

 

 

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