Racconti - Parte 3 - Resistenza
1.
Mi chiamavo Valter
Il mio nome di partigiano era Valter. Perché questo nome? … Alla domenica alla messa, Don Carlo [ ndr, Cavallotto] ha fatto una predica; lui veniva dall'alta Langa, da Gottasecca. Ha detto che era andato in una casa, che l'avevano chiamato per un parto improvviso e non sapevano se il neonato viveva o no. E’ andato lì e hanno fatto le cure che gli potevano e grossomodo si è salvato.
Allora dice al
padre: “Che nome gli mettiamo di battesimo?”.
“Faccia lei”.
“Ma come faccia lei?”
risponde Don Carlo.
“Mi dica lei, ho già sei
figli e non so più che nome mettere ancora”. Sul tavolo c'era una rivoltella.
“Ah ecco, gli mettiamo il nome Revolver” ha detto. E don Cavallotto: “No,
non è una cosa che ha senso…”
“Allora mettiamo Valter e così va
bene”.
La mattina dopo io entro nei
Partigiani, ho dato tutte le mie generalità, poi ho chiesto: “Basta? Me ne vado?”
“No, no, devi dirmi che nome di
battaglia vuoi avere”. Io non ero al corrente di quella cosa lì, ho detto: “Ma
non so…”. In quel momento mi è venuto in mente quel Revolver, ho detto: “Valter
va bene”.
“ Dove l'hai preso?”
Io ho risposto: “Non stiamo lì a
raccontare tutto”.
C’è da fargli un intervento perché ha
due proiettili in una gamba”. “Senz'altro - mi ha risposto - A
proposito, mi dica un po' chi è?” Non potevo fare a meno di dirgli il
nome. Come ha sentito il suo nome:
“Con quello lì non posso!”.
Si vede che il suo nome
si era già allargato in tutta la provincia e fuori provincia, dappertutto. “Non
posso perché io ho una cinquantina o più di partigiani feriti ricoverati qua,
chi sotto falso nome, chi con nome autentico, ma con cognome della moglie.
Questo qua, Galimberti, è troppo evidente… mi bloccano l'ospedale, mi
distruggono tutto”. Allora ho detto a Galimberti:
“Caro Duccio, bisogna che porti
pazienza, nemmeno qua ti vogliono. Ma stai tranquillo, adesso abbiamo ancora un
posto da andare. A Canale io conosco una signora, lei e il marito [Ndr: il
marito era Tonio Ferrero], hanno una fornace e sono disponibili a tutto. Sono
sicurissimo che loro ti accettano, tanto più che lui, il marito, è il
presidente dell'ospedale di Canale.
Arrivati a Canale, siamo andati a casa di Ferrero
dicendogli: “Ho un partigiano ferito qua, è il tale dei tale e lui ha subito
detto: “Non mi interessa il nome, mi interessa il personaggio, è un personaggio
per il quale vale la pena di rischiare, perché può anche essere il prossimo
presidente del consiglio”.
E difatti era così.
Noi, intanto, sapevamo che c'era un grande
personaggio, ma non ce l’hanno detto per sicurezza. Ma io ho detto a mio
fratello: “Tu mi dici sempre le cose e così adesso te lo dico io, non sono
ancora riuscito a sapere il nome, ma c'è un personaggio lì e l'ho già
visto”. Sono riuscito a vederlo, di dietro perché per fare dei movimenti
con la gamba, dove c’è stato l'intervento, camminava dalla casa giù verso le
file di nocciole, altissime. Lui camminava lì in mezzo con un giaccone addosso.
Infatti quando l'hanno ucciso a Centallo [ Ndr:il 4 dicembre del ’44] aveva
quel giaccone lì.
In quei giorni sono venuti i fascisti da Asti a
controllare la casa del Ferrero. Mentre sono lì, vedono tra i filari di
nocciole questo personaggio che andava su e giù in mezzo alla neve: “Chi è
quello lì?”
“Ah quello lì è un mio zio, un anziano che non
ha più nessuno, allora vive qua a casa nostra”.
“Come si chiama?”.
Lei ha detto un nome inventato. L’hanno chiamato, ma
naturalmente lui non ha risposto. “Magari una cannonata può anche sentirla, ma
le voci non le sente più. E’ talmente sordo che nemmeno noi quando viene a
tavola a mangiare non sappiamo mai cosa dire, cosa rispondere quando parla”. E
loro ci hanno creduto e se ne sono andati. Avevano soltanto da fare quei
cinquanta metri e l’avrebbero catturato… invece niente, hanno creduto alle
parole di quella signora. Così Duccio ha avuto salva la vita. Però nella notte
o al massimo l'indomani l'hanno portato via. Il Ferrero aveva avvisato il
responsabile di Torino, così sono venuti da Torino con un'auto, l'hanno
prelevato e l'hanno portato via.
Lui intanto si era abbastanza ristabilito. Era
già più di quindici giorni che era stato operato nell'ospedale di Canale.
Ferrero mi metteva al corrente. Io gli dicevo: “Ma senti un po' Tonio -
non dicevo nemmeno più signor Ferrero, gli davo del tu - Non parlate
mai?”
“Sì sì, parliamo di tutto, della Resistenza di
questo e quello. Lui è una persona molto in gamba. Voi vi siete già dimostrati
che siete gente di cui fidarsi”. Ma comunque il nome non ce l'ha mai detto.
Forse è stato meglio così, è più facile da tenerlo dentro perché tanto non ne
sapevi niente. In quei periodi la sicurezza non era mai troppa. Non sapevamo se
corrispondeva a un personaggio altolocato o soltanto un avvocato qualunque.
Duccio Galimberti operato nell’ospedale di Canale
Memoria
di Dante Faccenda dell’Associazione Franco Casetta.
Duccio
Galimberti, fu ricoverato in gran segreto il 15 gennaio ‘44 all’ospedale di
Canale da Tonio Ferrero, che ne era il presidente, ed era stato immediatamente
operato dai dottori Mattia Appendino e Cesare Denoyé con l’assistenza della
stessa Suor Angela. Due giorni dopo qualcuno riuscì ad avvertire di
un’imminente incursione di repubblichini in ospedale. Non c’era più tempo per
nascondere Duccio. E poi dove? Si sapeva che, come già altre volte, avrebbero
perlustrato ogni angolo, soffitte comprese.
Ed ecco la geniale intuizione della nostra
Suor Angela: in tutta fretta aiutò Duccio ad alzarsi dal letto, anche se ancora
molto dolorante per il recentissimo intervento, gli fece indossare un camice
bianco, gli mise al collo un fonendoscopio e gli raccomandò di aspettare
pazientemente accostato al letto di un ricoverato, come fosse un medico intento
a visitarlo, ma con le spalle alla porta. Appena questa si aprì di brutto, il
Galimberti senza voltarsi e secondo le istruzioni di Suor Angela, sbottò con
voce autoritaria: “Fuori! Sto visitando!”. Il degente di cui si vedeva il
volto, non era persona sospetta, per cui gli incursori, richiusa la porta, se
ne andarono a completare l’ispezione. Quella notte
stessa Duccio fu riaccompagnato a casa Ferrero dove rimase convalescente fino
ai primi di febbraio. In quei giorni un altro astuto stratagemma salvò in
extremis la vita a Duccio Galimberti.
L’intuizione questa volta fu della padrona
di casa, l’eroica Gemma, moglie di Antonio.
4. 16 aprile 1944 - La trappola
Erano agenti dell’UPI
(Ufficio Politico Investigativo) ma noi non lo sapevamo.
Li avevo intravisti al fondo del
paese che passeggiavano. Ma in faccia non li ho visti e se poi li avessi anche
visti non sapevo chi fossero, non puoi ricordare le facce di uno che non
conosci. Erano in tre con i loro soprabiti, spolverini di colore chiaro.
Erano tre o quattro giorni che giravano per il paese, si informavano da
uno e dall'altro e davano appuntamento per domenica pomeriggio presso la
caserma dei Carabinieri1, volevano far correre la voce, volevano il
passa parola. Ma nessuno ci ha fatto caso. Poi un bel momento, Tonio Ferrero ha
detto: “Ma qua bisogna fare attenzione e cercate di stringerli un po' e farli
cantare e con bel modo… Andate”.
Rino Raimondo, il mio amico partigiano e un suo amico sono andati
anche loro all'appuntamento e c'ero anch'io quella domenica. Era il 16 aprile
’44, eravamo una cinquantina, saremmo poi diventati tutti partigiani, ma il
gruppo non l'avevamo ancora fatto.
Io gironzolavo in mezzo a questi cinquanta e loro saranno stati
al massimo cinque o sei.
Parlavano anche in dialetto torinese, ma io non capivo cosa
volessero dire. Mi sono avvicinato a mio fratello: “Ma Cecu, bisogna fare
attenzione che questa gente qua per me non è dei nostri, parlano di tutto, meno
di ciò che potrebbe interessare a noi”.
“Tu sei sempre il solito che trovi la pagliuzza negli occhi degli altri, io non
trovo niente… come fai a saperlo?”
“Io dico soltanto, secondo il mio pensiero, che non sono partigiani questi qua,
vogliono raccontarci delle balle e attirarci. Non dicono da dove vengono,
dicono che sono in un reparto partigiano, ma dove? Dicono che sono armati e
hanno ancora delle armi a disposizione per chi volesse andare con loro, ma chi
sono? Garibaldini? Comunisti o socialisti di Giustizia e Libertà GL?”
Noi eravamo autonomi. Non
capivamo, non riuscivamo a farci una ragione. Non sostenevano niente, perché
loro non ne parlavano. Soltanto quando venivano diverse
volte interrogati da noi: “Ma chi siete chi siete?” loro dicevano: “Ma noi siamo
partigiani come voi altri…Voi siete già partigiani, siete già partigiani no?”
E noi: “Noi no!” Loro volevano pescarci in quel modo lì.
“Noi siamo raggruppati così come si vuol dire, ma non c'è nessuna idea di fare
il partigiano; non sappiamo nemmeno cosa sia”.
“Ed allora come mai vi siete trovati qua in tanti?”.
“Ce l'avete detto voi di passare la voce di trovarsi qua…
Ero quasi sempre io che parlavo. Nessuno diceva niente. Quelli più
anziani di quattro/cinque anni più di me andavano piano a parlare, perché c’era
molta diffidenza in quel tempo là. Invece io parlavo tanto, ma non capivo
niente di quello che interpretavano loro. Ad un certo momento, allora, ho detto
a mio fratello: “ Mio caro fratello, io me ne vado.
“Ma come te ne vai? Ti sei scaldato per venire qua e sei andato a parlare a
questo quell'altro… adesso vuoi andare via?”
“Sì sì, perché qua si mette male. Perché facciamo delle domande e
non rispondono alle nostre domande, gli chiediamo da dove vengono e loro non lo
dicono, gli chiediamo dove vogliono portarci e loro non si esprimono. E allora
con chi abbiamo a che fare? Qua c'è qualcosa sotto che non gira bene. Qua va a
finire che ci fanno tutti prigionieri e ci portano via. Fa come vuoi tu,
io me ne vado”.
“Ah, se esci tu, allora esco anch’io”. Allora, essendo usciti noi
due saremo usciti in quattordici o quindi. Dopo un po' ne sono di nuovo usciti
un'altra quindicina… Poi un bel momento abbiamo sentito degli spari e visto poi
spalancarsi la porta e sono usciti gli ultimi sette o otto. Allora noi che eravamo
lì fuori abbiamo capito tutto e ci siamo messi a correre, chi di qua, chi di
là. Un po' dopo, si faceva già notte, sono usciti loro e han preso quattro o
cinque dei nostri che erano lì fuori e Stefano Burzio di Vezza [foto], uno di
noi sui trentacinque anni, che avevano già malmenato all’interno. Gli avevano
già rotto le costole, l'avevano fatto sanguinare dappertutto, perché si
rifiutava un po', allora continuavano a colpirlo. Hanno continuato con
calci, pugni e spintoni e quando è stato in macchina hanno di nuovo continuato
a batterlo. Quando sono stati a un chilometro e mezzo da Canale, non ancora a
Valpone, hanno aperto la portiera della macchina e l'hanno sbattuto giù. E’
andato a finire sull'erba e poi giù dalla riva che c'è lì ed è morto lì. L’hanno
ammazzato, l'hanno ammazzato.
5.Testamento spirituale di Paulin
È la nostra patria che ci chiama, è lei che
lo vuole, è Dio che alimenta in noi questa nostra fiamma di patriottismo,
perché noi ce ne serviamo in bene, perché noi possiamo agire per una nuova
ricostruzione, affinché noi portiamo alto i nomi di Dio e della patria, tanto
oltraggiati; perché infine, nel solco da noi tracciato, difeso, e che forse ci
vedrà cadere, le nuove generazioni possano marciare verso nuovi destini e con
nuove idee.
Chiedo all'Onnipotente la grazia di poter
portare sempre alta la mia fede, anche trovandomi in certi momenti a faccia a
faccia con la morte.
Chiedo perdono a tutti quelli che
volontariamente o involontariamente avrò fatto del male. Ringrazio, dopo Dio,
tutte quelle persone che mi hanno aiutato, in modo speciale, Don Carlo, per i
suoi consigli, le sue brave parole, tutti gli amici dell'Associazione3
che mi hanno sempre amato e seguito nel tempo in cui facevo parte della
Presidenza. A questo riguardo vorrei far conoscere apertamente che il mio più
bel giorno della vita fu quello in cui entrai a far parte dell'Associazione. Fu
per me una vera tavola di salvezza.
6. I 23 giorni della città di Alba
La Brigata Canale è entrata, si può dire, la
prima in Alba.
Il comandante Mauri ha contato molto sulla presa
di Alba da parte della Brigata Canale; ci contava sia come uomini
disponibili e coraggiosi, sia come armamento. Quando abbiamo perso la città,
siamo usciti per ultimi.
Noi, in quel periodo, eravamo un po' ad Alba, un
po' venivamo a casa. I capi erano contenti quando qualcuno chiedeva di andare a
casa, così era uno in meno che mangiava.
La liberazione di Alba è stata un momento di
grande entusiasmo per la popolazione e per i partigiani. La gente abbracciava i
partigiani per strada, offriva loro cibo e mostrava la propria gioia per la
liberazione.
Nei primi giorni mi ricordo che in via Maestra
c'era una pasticceria, dove c'erano tanti pasticcini e confetti. Mi sembra che
ci sia ancora oggi quella pasticceria lì… penso si chiamasse Cignetti. Si
trovava da Piazza del Duomo andando su in via Maestra. Entravi, mangiavi tutto
quello che volevi e ti facevi una scorpacciata di dolci, ce li davano gratis.
Anche se eravamo in tanti.
L’han pagata cara questa foto. Dopo pochi giorni
ne abbiamo già avuto uno arrestato e poi fucilato perché l'avevano riconosciuto
dalla foto.
Queste fotografie o le hanno prese da chi ha fatto le foto o sono state consegnate direttamente al comando Fascista da chi scattava le foto.
Io non so chi ha fatto queste foto, io non sono andato. Ho detto a mio fratello: “Tu sei più grande di me e quindi fai come vuoi, ma io non vado”. E allora non è andato nemmeno lui.
Era un fotografo di Alba, sono venute fuori
queste foto. Ne avevano presi diversi che si erano fatti fotografare.
Hanno peccato di superbia. Dovevano
mantenere l’anonimato.
La gioia per la liberazione fu immensa, ma il
controllo su Alba fu purtroppo effimero. Infatti, dopo circa tre settimane,
fummo costretti ad abbandonare la città a causa della controffensiva nemica. La
perdita di Alba avvenne il 2 novembre 1944.
Era dei nostri. Quando abbiamo perduto Alba,
siamo scappati tutti nel modo del si salvi chi può.
Allora lui si è gettato nel fiume Tanaro e a
nuoto ha raggiunto la sponda opposta, nonostante che a novembre c’è sempre la
piena del fiume. Si è portato fino a un gruppo di piante dove si è potuto
nascondere e poi è svenuto. E’ stato trovato da contadini, che l’hanno portato
a casa e hanno chiamato un dottore che gli trovò una polmonite per via delle
acque gelide. Venne trasportato all’ospedale di Canale dove restò fino alla sua
morte, che arrivò all’incirca dopo un mese, verso la fine del 1944.
«Sono lieto di esprimere
il mio vivo compiacimento per il comportamento tenuto dalla Brigata “Canale”
durante la battaglia per la difesa di Alba. La caduta della città nelle mani
del nemico non è che un episodio, che non deve scuotere né il nostro spirito né
la nostra volontà. Cedere di fronte al nemico soverchiante non è disonorevole,
quando si è onorevolmente combattuto. Ritempriamo le forze per le prove future.
Il giorno della riscossa non è lontano.
Riconquistata Alba, i
nazifascisti intensificano la repressione antipartigiana con durissimi
rastrellamenti, approfittando anche dell’intempestivo proclama Alexander3.
Il freddo e la neve del terribile inverno 1944 hanno complicato ulteriormente
la vita e l’azione dei partigiani.
Da ricordare l’importante e celebre libro che Beppe Fenoglio4
dedicò a “I ventitré giorni della città di Alba” pubblicato nel 1952.
7. 8 marzo 1945 - Uno studente in mezzo ai fascisti
Al termine della Battaglia di Santo
Stefano Roero dell’8 marzo 1945 abbiamo
trovato vicino ad una pianta un bel ragazzo. Era ferito e maciullato, non c'era
più niente da fare per salvarlo. Quando siamo arrivati lì vicino, ci ha fatto
capire di metterlo in modo da avere un appoggio al tronco dell’albero.
Ci disse che era uno studente
meridionale, che però studiava all'università di Venezia. L’avevano preso e
tenuto tre-quattro mesi nelle celle di Torino e poi quella mattina l’avevano
vestito da fascista, caricato e mandato a fare il lavoro qua.
Ci ha spiegato queste cose, poi ci
ha detto di prendere il suo portafogli e, se avessimo avuto l'occasione, di
farlo avere ai suoi familiari: “Dite loro che io sono stato ucciso da quei cani
di fascisti”.
Dentro al portafoglio c'erano
settanta lire, allora settanta lire era un piccolo capitale, e glieli abbiamo
date a Fra Caramba che facesse dire le messe per lui in convento.
Tempo dopo,
andando casualmente da un barbiere a Torino, ho riconosciuto quel ragazzo in
una foto appesa sul muro. Il negozio era di suo fratello, che avvisato del
messaggio che gli dovevo portare, mise fuori tutti i clienti presenti; poi mi
venne vicino e gli ho così consegnato il portafogli, dicendogli le parole che
il fratello mi aveva detto, che chi l'ha ucciso sono stati quei cani di
fascisti.
Lui si è messo a gridare, ma oramai
non c’era più niente da fare…
8. Ho difeso Palazzo Reale a Torino
La mattina presto del 28 aprile
1945 siamo poi andati a Torino dove la nostra collaborazione e il nostro aiuto
sono ancora stati molto validi perché c'erano ancora diversi cecchini dislocati
in caserme e in caseggiati isolati che continuavano a sparare. Abbiamo ancora
sostenuto diversi interventi per fermarli.
Allora è arrivata una staffetta
partigiana e ci ha detto che ci avevano dato il posto al Palazzo Reale e siamo
andati lì.
Combattere non potevi più, c'era
soltanto da tirare fuori questi cecchini dai palazzi. Io, per esempio, un po’
da disgraziato perché non devi andartene da solo in giro per la città, al
mattino alle 4 scendevo da quella specie di pagliericcio che avevamo noi al
Palazzo Reale per andarli a cercare.
Nel Palazzo ho visto,
con dispiacere, brutti nostri comportamenti… Io dicevo: “Non posso
sgridarvi perché dopotutto per noi che abbiamo vissuto nella miseria assieme
alla fame, constatare la ricchezza che c'è qua dentro fa venire un po' di
rabbia…, però è da criminali distruggerle. Sono cose che devono restare lì nella
storia”. E mentre io dicevo questo c'era già chi rompeva delle vetrine, con gli
scaffali dentro. Mi rispondevano: “Oh, ma tu sei sempre l'unico pazzo
che abbiamo assieme a noi”. Io ne soffrivo dentro. “Eh ma levare le porte,
romperle, spaccarle, ma non so, non si deve fare”. Mio fratello che aveva
cinque anni più di me, mi diceva: “Tu, Paulin, ti metti sempre nei pericoli,
una volta o l'altra invece delle porte ti aprono te in mezzo. Mezzo ti buttano
da una parte e mezzo dall'altra”. Così sfasciavano e saccheggiavano.
Anche se quando
c’eravamo noi non c'era quasi più niente da saccheggiare.
Noi
dormivamo nelle camere del Palazzo e allora appena io potevo entravo e mi
infilavo nei grandi alloggi che c'erano. Insieme a me sono entrati anche altri
sette o otto, abbiamo visto lo sfarzo, il lusso che c'era, cose indescrivibili.
E allora gli altri: “Bisogna rompere tutto!”
“No, no, è
malfatto. Bisogna tenerle queste cose qua perché…”.
“Ma sono
del re, sono della casa regnante!”.
“Ma guarda,
oramai sono nostre, sono dell'Italia”. Ce n'erano che non riuscivi a
tenerli…Appena entrati in quei posti continuavano a distruggere. C'erano ancora
due porte, erano una cosa eccezionale per come erano fatte. Una siamo riusciti
a aprirla ma l'avevano già rotta. Era rimasta l'altra. Mi sono messo davanti:
“Voglio vedere se avete il coraggio di sparare dentro se mi metto io davanti.
Insomma, non si fa così”. E loro quasi quasi mi han riso dietro. “C'è sempre il
più furbo di tutti che fa queste cose qua. Eh eh!”.
Tra
di loro c' erano persone che conoscevo, e altri che invece non volevano
sentirne parlare. Comunque sono riuscito a non lasciarla rompere.
Dico: “Non si può e allora me la porto a
casa io. Allora mi son fatto aiutare da un altro, l'abbiamo scardinata e il
giorno dopo siamo venuti giù quando ci han mandati a Moncalieri. Io l'ho presa,
l'ho caricata sul camion che ci ha seguito a Moncalieri. Dato che la potevi
aprire, ho visto che dentro c'era uno specchio enorme, teneva tutta la porta,
poi era tutto trafilato, con una riga dentro, sembrava in oro, proprio una cosa
bellissima. Pensavo… questa porta al mattino, dobbiamo pettinarci, dobbiamo
uscire e ci vuole uno specchio. L’abbiamo portata così lì a Moncalieri.
Avevo
però lasciato il Palazzo un po' più tranquillo e tutte le bestie le ho mandate
via dal Palazzo Reale, perché ce n’erano che avrebbero distrutto tutto. Gente
che arrivava a fare i propri bisogni nelle stanze, apposta per fare dispetto al
re.
“Ma lo fai
a tutti noi il dispetto, perché vuoi fare quelle cose lì?”. Eppure non c’era
niente da fare.
Ho portato quella porta a Moncalieri,
poi dopo due o tre giorni ho trovato un camion che andava a Canale per ritirare
della roba e allora sono andato anch'io.
Ho caricato la porta sopra quel
camion. La storia successiva di questa porta è bene poi non raccontarla.
Basti dire
che a casa mia non è mai arrivata.
9. Villastellone, 26 aprile 1945 – Con il Bazooka
Il bazooka ha lo sfogo della fiamma di dietro, così tremendo che noi non
ce l'immaginavamo. All'aperto non faceva così, ma essendo in un locale chiuso,
i piatti di quella povera donna sono partiti tutti … è stato proprio un
macello. L’abbiamo guardata in faccia, lei ci guardava e ci diceva: “Non posso
più nemmeno piangere, non posso più dire niente”. “Stia tranquilla signora che
non succede niente”. Le era già successo, povera donna.
10. Torino – fine aprile 1945 – Ci hanno sparato dalla finestra
Mi ricordo che un
giorno ho trovato tre partigiani che mi hanno detto: “Sei solo? Allora vieni
con noi, dobbiamo andare ad arrestare uno, siamo tre, tu fai quattro, così
siamo a posto. Ne mettiamo uno di fuori e tre vanno dentro”. Ma io non sapevo
né dove andavano, né cosa si andava a fare, ma il mio impeto che avevo da sempre
di seguire tutto mi ha spinto a seguirli.
Mentre andavamo
giù, loro tre e io facevo il quarto a lato, sentiamo sparare da una finestra.
Quello in mezzo, di fianco a me, ha soltanto detto: “Aahh…”, poi è caduto per
terra fulminato, è stato preso proprio in testa, al centro del cranio… è stato
ucciso sul colpo. Inginocchiati per terra davanti a lui, abbiamo rivolto subito
lo sguardo su, verso le case prospicienti. Lì attorno si sono ammucchiate delle
persone che dicevano: “Hanno sparato da quella finestra là”
Allora siamo saliti su ed io,
sempre il solito cretino, vado lì alla porta, suono il campanello e batto sulla
porta con le mani. Ma mentre battevo ho sentito l'irruenza di questo amico che
mi prendeva e mi buttava per terra dall’altra parte: “Ma sei pazzo!? Quello lì
spara!!”. E mentre diceva quella cosa lì ha sparato cinque colpi nel
portoncino. Poi ha detto: “Non muovetevi”. E con il calcio del mitra ha rotto
il sopraluce del portoncino. In quei palazzi hanno il lucernario sopra le
porte, a Torino ce ne sono ancora adesso; poi ha preso una bomba a mano, tolto
la sicura e poi l’ha buttata dentro. Ci siamo coricati per terra, la
bomba è esplosa, abbiamo aspettato un attimo. La porta si è aperta, quello era
stato colpito, l'ha preso proprio lì in mezzo alle gambe e gli ha portato via
tutto. E’ caduto riverso sul letto. Tutto sangue su quel letto, per
terra, dappertutto…Abbiamo guardato se c'era qualcun'altro, ma niente: era
solo.
Intanto alla porta arrivavano gli inquilini del
palazzo che prima io avevo già avvertito: “Andiamo su ad arrestarlo e dato che
la legge ci dà il permesso che quello che prendiamo resta nostro, allora lo
ripartiamo tra tutti”. Così tutti sono entrati… chi aveva dei cestini, chi
aveva delle ceste, hanno portato via da quella casa tanta roba da mangiare. Il
cecchino era un dentista; con tutto quel cibo avrebbe potuto resistere per
almeno un mese. Io ho preso due libretti che ho ancora oggi nel mio archivio,
uno è il nuovo Codice Civile e un altro è la Divina Commedia. C’è la firma,
forse la sua, di padrone del libro. C'è scritto Torino 17/04/1945 - XXIII °
anno dell'era fascista.
Tutto quello che c'era nella casa parlava di
fascio, lui era convinto al cento per cento.
11. A quest'ora eri già a farti mangiare dai vermi
Lui ha cercato di scappare. Due pallottole
dentro la testa gli hanno tirato. Una davanti e una di dietro. Gli avevano
sparato da tre, quattro metri di distanza.
Si vedeva che era un fascista, il partigiano
gli ha sparato perché scappava. L'ha portato su, l'ha preso sulle spalle, l'ha
accompagnato al nostro accampamento.
“Adesso cosa facciamo con questo ferito?”.
Tutti volevano ammazzarlo. “Tanto soffre. È inutile, non si salva perché ha una
pallottola in testa. Anzi due”.
Allora noi ci siamo messi d'accordo. “Non
ammazziamolo, perché purtroppo la vita è una vita sola”. Siamo riusciti a
sconsigliare tutti gli altri partigiani, l'abbiamo caricato su una macchina,
l'abbiamo portato a Canale all'ospedale. Lì è arrivato anche il dottor
Appendino che era il capo, era lui che si occupava di tutto all'ospedale.
Il dottore: “Cosa c'è? C'è un ferito qua? Cosa ha fatto?”.
“Ha due pallottole in testa”.
“E ma adesso come facciamo?”. L'ha portato
dentro, poi ci ha detto ancora queste parole. “Adesso se arrivano i tedeschi,
ci ammazzano tutti qua. Se vedono qui voi partigiani…”. Noi eravamo vestiti da
partigiani. Per rappresaglia, senz'altro potevano uccidere chiunque.
Ma poi il dottore si è messo lì con una
determinazione, perché era un dottore, capace di fare tutto, dai parti, a
curare il cuore, esperto in tutti i rami.
Si è messo lì e gli ha tolto quelle
pallottole. Poi quel ragazzo, l'hanno ricoverato forse di sopra nel solaio.
Qualche giorno dopo siamo andati a trovarlo,
per vedere quel ragazzo come stava.
“Allora come
va?”. Non ci ha risposto. Niente. “Allora se non vuole parlare, cosa vuole
fare? Cosa facciamo? Andiamo via?”. Abbiamo salutato, anzi gli ho toccato la
mano e lui ha girato la testa dall'altra parte.
Niente da fare. Poteva dire semplicemente
grazie per il nostro intervento.
“Se non
c’eravamo noi, tu a quest'ora eri già sotto a farti mangiare dai vermi.
Dai vermi”.
Il tedesco non sono riuscito a capire il
perché sia successo, dove fosse caduto, non l'ho visto con i miei occhi.
L'avevano caricato su un camion di botti di vino, almeno erano così le voci. Io
non ho potuto avvicinarle per sentire se erano piene o vuote. Loro, i tedeschi,
erano sopra queste botti, l'hanno portato su, l'hanno portato in piazza.
Io in quei giorni ero su nei boschi, ma ero
venuto a casa per andare dal dottore Appendino per farmi levare un dente perché
avevo la faccia gonfia. Ero andato lì dalla farmacia che si trovava a fianco
alla parrocchia; normalmente si faceva così, battevi un calcio, forse anche due
nelle porte lì del negozio e immediatamente accendevano la luce, veniva fuori
qualcuno e invece non è venuto nessuno. Ho continuato ripetendo questi due
calci, ma nessuno si è mosso. In quel momento ho sentito questo autocarro che
arrivava… A quei tempi non c’era un via vai di autocarri, di macchine, allora
sono stato lì fermo. C'era il coprifuoco, ma con il coprifuoco succedeva che, a
forza di rimanere nel buio, non so spiegarlo fisiologicamente come poteva
accadere, ma tu riuscivi a vedere anche nell'ombra, non tutto, ma qualcosa di
più. Ebbene, quando mi è passato di fianco ho visto questo camion pieno di
botti e su ogni botte c'erano uno, due tedeschi con l'elmetto in testa che
andavano su piano piano piano.
Si son fermati davanti alla chiesa di San
Bernardino e ho sentito che qualcuno è sceso giù dal camion, sentivo gli
scarponi che battevano sul selciato. Allora son venuto giù, son passato lì
dalla via che esce da Piazza San Giovanni e mi sono trovato davanti al peso
pubblico. Sento uno che viene giù e penso: “Questo qua è un partigiano che
naturalmente va giù verso la chiesa e lo possono prendere proprio da stupido”.
Allora vado incontro a quel rumore di passi perché non lo vedevo e quando gli
sono quasi vicino dico: “Fa’ attenzione!!”. Ma vedo uno molto più alto di me.
Vedo quelle SS sulla giacca, con quell'elmetto. Lui mi prende per i capelli
così, mi alza da terra, poi mi dà uno schiaffone che mi è arrivato proprio
sulla medicazione che avevo. Allora dalla bocca mi è uscito un po' di tutto. Mi
metto le mani in tasca per prendere il fazzoletto per pulirmi e nello stesso
tempo ho tolto la sicura alla pistola pensando: “Fin quando si permette di
picchiarmi così, pazienza. Non ne ho voglia di prenderle, ma le metto con le
altre…”.
E allora lui continuava con una parola che
capivo. Sono tre le parole che ho capito. Una quando mi ha detto partigian e continuava a dire tante
cose, ma l'unica cosa che capivo era
partigian. E io: “No, no partigian, guarda c'ho tutta la faccia gonfia”. In
realtà non avevo più, adesso, la faccia gonfia, ma lui l'aveva vista
prima. Mentre lui continuava a
picchiarmi capivo che magari aveva più paura di me, perché io non mi muovevo,
stavo lì passivo. E lui invece continuava a battermi, continuava a parlare e a
battermi. Mentre mi batteva sono andato a finire contro una casa che c'è ancora
adesso, sarebbe la casa del dottor Calorio. E allora lì le prendevo doppie,
perché a ogni schiaffone battevo anche un colpo della testa contro il
portoncino.
Allora mi sono detto: “Qua bisogna anche che
cerchi di capire come è fatto questo signore”. Allora son caduto in avanti e
cadendo ho fatto in modo di toccarlo dietro. Lui aveva la pistola dentro la
fondina e toccando così con le dita, in un attimo ho capito che aveva ancora il
meccanismo che fermava il gancio e aveva il fucile Mauser a tracolla. Allora ho
pensato: “Finché mi batte pazienza, le armi non riesce a usarle”. Perché per
tirare fuori il fucile bisogna farlo uscire dalla spalla e per prendere la
pistola di dietro devi toglierla dalla custodia.
Ad un bel momento arriva un altro tedesco e
dice: “Fritz, Fritz!”. Era la seconda
parola che ho capito, penso il nome dell’uomo; e questo qua risponde: “Oh oh”.
Si vede che si chiamava Fritz; allora si è fermato più o meno lì davanti al
peso pubblico. Magari gli aveva
risposto: “Vieni avanti o Non posso venire”, qualcosa di simile. Quello
continuava a chiamarlo e io a questo punto ho pensato che bisognava prendere
una decisione. Avrei preso tutte le botte che lui era disposto a darmi, perché
capivo che se io usavo la rivoltella che avevo in tasca, l'avrei preso nel
basso ventre e lui cadeva a terra senza fare un gesto. Però avrebbero fatto una
rappresaglia, lì attorno. Se potevo evitarla avrei avuto più piacere.
Lui continuava a battermi e quello là
continuava a chiamare. Allora lui mi prende per i capelli, mi alza, mi gira
all'incontrario, mi dà un calcione dietro, non so cosa avesse avuto, i chiodi
sotto quegli scarponi. Mi ha strappato il giubbotto, mi ha strappato il
pantalone, mi ha strappato le mutandine che avevo sotto e mi ha fatto una
grossa ferita lì al fondo schiena. E mi ha detto, la terza parola che poi ho
capito: “Raus!!”.(Fuori!). Di corsa,
ho ubbidito. Sono così venuto su, ma invece di girare a sinistra, per non
svelare dove abitavo [Ndr Paulin abitava in Via Sant’Andrea, lato sinistro
dell’ospedale di Canale], ho continuato ad andare su verso la collina.
Quando sono stato lì dove c'era il
portoncino che andava nell'ospedale, ho visto che c'era un po' di movimento. Si
vede che quel tedesco o l'avevano portato lì o erano andati a chiamare qualcuno
per soccorrerlo.
Allora me ne sono andato per i fatti miei.
Tutto è finito lì, almeno per me…
Tutto questo per dire che i momenti erano
quelli che erano.
13. Il mio amico Bill venuto dal cielo
Io ho preso parte, verso la metà
del mese di Marzo 1945, alla “Protezione del lancio di viveri, armi e
munizioni” che si fece nelle valli tra S. Damiano d’Asti e Govone.
Per evitare che il materiale, che
ci mandavano gli Alleati, potesse cadere nelle mani dei nazifascisti, venivano
inviati gruppi di Partigiani, reclutati tra i residenti nella zona, a vigilare
sulle operazioni di recupero.
Io ero posto su una collinetta a
ridosso della valle, dove veniva eseguito il lancio, alla distanza di una
trentina di metri da ognuno dei miei compagni.
Avevamo preparato i falò come ci
aveva detto di fare il nostro caposquadra… per esempio facevamo come una croce
oppure sempre una croce ma fatta in altro modo, cambiava ogni volta secondo gli
accordi già presi prima. Gli aerei che effettuarono il lancio furono due e
lanciarono tanti “bidoni”, come venivano chiamati questi pacchi nel nostro
gergo.
Ad un certo punto notai che tra i
bidoni, era sceso, piano piano appeso ad un paracadute, un uomo a non più di
20-30 metri da me.
Era un paracadutista, non ne avevo
mai visto uno, involontariamente cadde tra i rami di un grosso albero
rimanendovi impigliato.
Mi precipitai ai piedi dell’albero
e riconobbi un militare americano. Dopo averlo invitato a scendere gli feci
capire che era capitato in mezzo ai Partigiani e perciò tra amici.
Lui, naturalmente, non comprendendo
la mia lingua non voleva scendere, anzi mi puntava pericolosamente contro il
suo fucile Thompson automatico.
Ad un certo punto escogitai una
mossa che si dimostrò efficace; mi avvicinai ai piedi dell’albero, posai il mio
fucile per terra bene in vista insieme alla rivoltella ed al mio giubbotto
facendogli capire di essere completamente disarmato e che quindi per lui non
c’era alcun pericolo e pertanto poteva scendere tranquillamente.
Questo mio gesto lo convinse, piano
piano si slacciò le cinghie del paracadute e guardingo scese dall’albero.
Sarà stato uno e 90, se non di più.
Appena toccò terra mi fissò negli occhi e con immensa gioia mi abbracciò
facendomi un po’ male perché grande grosso così, poco che stringesse gli ho
dovuto dire basta…così ci sedemmo lì per terra.
Immediatamente si comportò da
americano. Da una tasca tirò fuori cinque pacchetti da 20 sigarette, da noi in
Italia non c’erano ancora, e dall’altra cinque tavolette di cioccolato e tra un
abbraccio ed una stretta di mano il nostro colloquio si intrecciò come tra due
vecchi amici: lui in inglese mi spiegava le azioni di guerra americana ed io
amichevolmente, in piemontese, gli narravo le avventure partigiane.
Salimmo poi sull’albero dove sganciammo
il paracadute impigliato e lo portammo a terra.
La nostra amicizia in poco tempo si intrecciò ed iniziando dalle
presentazioni io gli dissi che il mio nome di guerra era Walter, mentre feci
fatica a capire il suo nome. Non riuscivo a pronunciarlo. Ha provato due o tre
volte a dirmelo, ma io non capivo; gli ho detto ad un certo punto: - Guarda,
non stiamo lì a perdere del tempo, io ti chiamo Bill… sei contento? e
lui di buon grado accettò.
Ritornammo poi in piena notte al
Castello di Cisterna portando il prezioso carico a noi tanto necessario.
Accompagnai Bill alla sede dove era
dislocata la Missione Alleata, con la promessa di andarlo a trovare presto.
Il mattino seguente, appena i miei
amici Partigiani seppero che cos’era successo, ma più di tutto quando
ricevettero in parti uguali le sigarette e le tavolette di cioccolato, mi
invitarono a raggiungerlo, con la speranza di portare a casa altri regali.
Quando andavo a trovarlo, viste le
misure di sicurezza che non permettevano l’accesso, io dall’atrio antistante
chiamavo ad alta voce “Bill” e lui, se era disponibile, immediatamente
accorreva.
Non mi sono mai interessato circa
le sue precise generalità e pertanto quando con la mia Brigata ci spostammo,
persi le sue tracce ed ancora oggi non so se sia sopravvissuto alla guerra e
sia ancora vivo.
Per me comunque è stata una
bellissima vicenda ed ancora oggi, a distanza di oltre 60 anni, ne conservo un
delicato ricordo.
14. Il perdono: l'arma più forte
Lì è successa una
mia cosa particolare.
Il
28 di giugno del ‘44 io ero a casa, perché
ogni tanto bisognava cambiarsi i vestiti e allora si veniva a casa; la mamma,
eravamo due fratelli partigiani, io e Francesco, ci preparava una tinozza, con
un po' di acqua calda e facevamo il bagno. Ci siamo coricati e prima dell'alba
abbiamo avuto la sorpresa, a causa penso di una spia… anzi sarei disponibile a
farne il nome, ma non l'ho mai fatto, me lo tengo per me e l'ho perdonato già
in partenza. Comunque ha dato il nostro nome, che eravamo due fratelli, che
eravamo lì. Mio fratello più anziano, aveva cinque anni più di me, svelto si è messo sotto il letto, quei
letti di una volta, alti, con le traverse.
Però quando i fascisti sono entrati, in due,
avevano un cagnolino. Io ringrazio il Signore che quel cagnolino era più o meno
della mia forza, non sapeva né abbaiare né niente. Stava lì…zitto. Qualunque cane vedendo un uomo sotto il letto lo avrebbe
segnalato e quello sarebbe stato passato per le armi immediatamente. Comunque
niente. Uno dei due continuava a dirmi che ero partigiano. Io ho risposto: “Ma no, io niente”.
“E tuo fratello?”.
“Mio fratello è militare, non l’ho più
visto, non è ancora arrivato”.
E
con tutto ciò lui ha continuato a picchiarmi abbastanza forte e più che con le
mani mi picchiava col calcio del mitra; perdevo sangue dappertutto. Da quando
erano entrati io continuavo a prendermi quei quattro stracci che avevo da vestirmi,
perché mi dicevo: “ Se mi ammazzano sulla
piazza è finita, ma se mi portano in Germania bisogna che abbia qualcosa
addosso”. E come io allungavo la mano, lui con
il mitra mi picchiava sul braccio; io non ho
mai mollato e mi sono messo addosso quello che
ho potuto e nello stesso tempo qualcosa me lo mettevo in tasca. Più di tutto mi
preoccupava fare in fretta per venire via e portare via da lì quel cane.
Quando arriviamo nel cortile, mia mamma si
mette a gridare. Mi viene incontro, così il fascista, io non penso che l'abbia
fatto apposta, mentre lei veniva verso di me ha tentato di fermarla e allora
lei ha perso l’equilibrio, andando giù riversa a terra.
Io:
“Mamma… mamma”, mi sono chinato sopra di lei.
Lui col calcio del mitra mi ha spaccato lì dietro la testa, così io perdevo il
sangue che andava sulla faccia di mia mamma. Allora lui mi ha preso per i
capelli e mi ha tirato su continuando a dirmi:
“Saluta tua mamma perché tanto adesso
ti porto in piazza, ti ammazzo là, così che la gente ti veda”. Poi dice a mia mamma: “Vieni
a vedere che fine che fa tuo figlio!”.
Lei piangeva… come può una mamma. Con tutto ciò arriviamo sulla piazza e lì il
comandante di questo plotone che era in rastrellamento, vedendomi che perdevo
sangue dappertutto dice: “Questo qua come
l'avete conciato? Chi è che fatto una cosa simile?”. Uno ha subito
detto: “ E’ stato lui”.
“Sì, sono stato io. Ma adesso siamo
all'epilogo, questo qua lo ammazzo e così è finita”.
E il comandante
dice: “Tu non ammazzi
nessuno!”.
“Ma come?”
e fa per spararmi.
Lui,
il comandante, gli alza il mitra dal quale parte una raffica verso l’alto.
Comunque ha fatto segno ad altri militari che lo
tenessero fermo.
Il
nostro capo della brigata aveva un contatto con una signorina che falsificava i
documenti, mi aveva fatto un documento in cui aveva scritto che io avevo un
anno di convalescenza. L'anno finiva al 2 di luglio, qui eravamo il 28 di
giugno. Ho chiesto: “Ma se lei facendo il giro
del suo rastrellamento passa di qui nei prossimi giorni, mi porta via lei?”.
“No, no, no, hai tua mamma, come mi hai
detto. E allora prima cosa chiedile scusa per quello che ti ha fatto questo
delinquente”. Non capivo nemmeno perché la
prendesse tanto a cuore nello stato in cui ero capitato. Comunque mi ha mandato
a casa.
Sono
passati diversi giorni prima che mi rimettessi bene a posto, poi tutto è
passato.
Al 20 marzo del ‘45 a Vaglierano c'era un
posto di blocco dove c'era la stazione ferroviaria. Siamo andati lì di notte,
abbiamo assaltato per poter prendere delle armi e ci sono stati due loro morti.
Noi un ferito, leggero e nient'altro. Abbiamo preso una ventina di prigionieri
e li abbiamo portati al Castello di Cisterna.
L’anno
prima, quando ero rientrato in forza di nuovo con la brigata Canale, avevo
descritto quell’ individuo che mi aveva
fatto tutto questo male… me lo vedo ancora adesso, so perfino quanti capelli
aveva in testa, talmente mi ha lasciato l'impressione.
Al
mattino, io dormivo appunto qui vicino, mi
dicono: “Sai che tra quelli che abbiamo preso
questa notte c'è anche quel disgraziato che ti ha fatto tanto male?”. “Io non so, non l'ho
visto, era notte”.
“Andiamo su, andiamo su, lo ammazziamo e
così lo mettiamo a posto, aggiustiamo i conti!”.
Sono venuto su insieme a loro e quando sono
arrivato sono entrato lì in quella porta e me li son visti là nella
paglia. L'ho subito riconosciuto e anche lui ha riconosciuto me. Ho fatto
finta di niente. Ho fatto un giro e loro mi stuzzicavano: “ E’ lì, quello lì,
quello lì, dagli un calcio… è lui”.
“Lasciatemi stare, io devo pensare, devo
cercare di essere sicuro di quello che dico… Questo qua che volete dire, questo
qua non l'ho mai visto”.
Eh, allora gli dico: “Per favore, alzati in piedi”.
Lui si è alzato: “Dimmi come ti chiami, così
io ti sento parlare e se sei quello che mi ha picchiato ti riconosco”. Nessuno ha
capito quello che ha detto, talmente era preso dal panico, talmente faceva
pena, in un certo senso.
Io
ho continuato a dire: “Io questo qua non lo
conosco, non l'ho mai visto, quindi andiamo pure via. Quello che vi hanno
indicato a voi altri, qua non c'è”.
Per
me è stato il giorno più bello della mia vita perché potevo avere
questo signore sulla mia coscienza; se lo sarebbe
meritato perché lui voleva ammazzarmi a tutti i costi. Ma, comunque, non c'è
riuscito e allora io l'ho perdonato.
Mi
sono detto: “Guarda, il suo comandante poteva o
ammazzarmi lui o lasciarmi ammazzare da questo qui. Ma mi ha salvato
la vita e io gliela salvo a questo, anche se non se lo meriterebbe”. E
ne sono stato proprio soddisfattissimo
Lui
ha capito la mia scelta di non indicarlo senza
farlo capire ai miei, e quindi passando di lì me lo son visto di nuovo in mezzo
agli altri...
15. La “parola” dei fascisti
Avevamo con noi nella brigata un Toscano, mi
sembra, [Ndr. era di Copparo in provincia di Ferrara, Emilia Romagna], proveniva da una formazione garibaldina che operava in Val di
Lanzo. Era da pochi giorni con noi motivato da valori di Libertà.
Alla vigilia del Natale del ’44, l'abbiamo
portato a casa nostra, siamo arrivati in tre, io, lui e mio fratello Cecu a
mangiare. Non so cosa la santa donna di nostra mamma ci abbia potuto fare.
Comunque buono, buono, tutti e tre a decantare comunque quello che si
mangiava.
Si chiamava Marino Carletti. Era, specialmente,
amico di mio fratello Cecu, che aveva già ventiquattro anni. Lui ne aveva tre
di meno, ventuno.
L'ha pregato, ma proprio supplicato: “Non andare
più su quella collina, sta qua con noi”.
Erano tanto amici mio fratello con quel signore
lì, ma lui non ha accettato. E’ andato lì dove li hanno poi presi il giorno di
Natale. La cosa è anche andata un po' per colpa nostra, nel senso che un nostro
gruppo è andato a prendere un vitello a un contadino. Noi quando avevamo i
soldi lo pagavamo subito, altrimenti facevamo un buono, che poi sono stati
sempre pagati dopo la guerra. Per questo contadino è stato più il dispiacere
che gli hanno fatto, perché il vitello gliel'han pagato.
Così lui nella notte del 24 sul 25 ha portato su
quella collina i fascisti per prenderli.
Mio fratello gli diceva da tempo: “Marino, non
andare più su quella collina là, perché a lungo andare, diventa anche più
pericolosa”. Ma lui più di tutto non voleva pesare sulla nostra famiglia. Aveva
capito che ciò che sarebbe servito da mangiare non era roba che potevamo
avere.
La collina in questione era quella vicino a
Canale, chiamata frazione Anime. Per andare a Santo Stefano.
I fascisti sono arrivati, ma per fortuna, hanno
preso solo tre nostri partigiani. Poco lontani c'erano dieci o dodici
partigiani che potevano prendere, ma chi li ha portati sul posto non sapeva che
c'erano. Quando hanno sentito i colpi sono scappati giù che, lo dicono ancora
quelli lì che sono ancora viventi [Ndr. al momento del racconto di Paulin] gli
passavano le pallottole sopra la testa mentre correvano giù verso la valle.
I fascisti sono venuti su all'improvviso,
chiamati da quel signore là. Con i camion fino all’inizio della collina,
dove c'è la strada che va su per andare alla frazione Anime, poi sono venuti a
piedi. In cinquanta o sessanta, non so più.
Il tutto per la vendetta di questo contadino che
gli avevano preso il vitello.
I tre nostri partigiani erano
Marino Carletti di ventuno anni, Giuseppe Costa di ventuno anni detto Punu, e
Gian Battista Gioetti di diciannove anni, nome di battaglia Tista. Tutti
facevano parte della Brigata Canale, orfani o con situazioni familiari
difficili. Trascorrevano quella vigilia di Natale in fraterna amicizia,
cementata dal comune ideale di lotta.
Li
hanno presi e massacrati di botte, tutti sanguinanti, tutto quanto più brutto
da far vedere.
Il
giorno di Natale, faceva freddo e con un po' di nevischio che veniva giù, li
hanno messi sul camion in bella vista e li hanno fatti andare a Fossano, poi
Savigliano, poi sono andati lì dove li hanno poi uccisi, a Cigliano Vercellese.
Il grosso del presidio fascista che c'era a Cigliano,
era andato a fare dei rastrellamenti. In quei giorni ne avevano prese tante,
avevano anche avuto dei caduti. Erano arrabbiati e forse un po’ brilli, così
quando hanno visto arrivare i camion con i loro camerati e i tre nostri
partigiani prigionieri, per vendetta e rappresaglia li hanno voluti tirare giù
e ammazzarli lì a Cigliano.
Nonostante il loro maggiore che comandava la
colonna ammettesse: “Ma io ho preso un impegno”. L’ aveva deciso con il nostro
comandante Ceka che avrebbe fatto uno scambio: ridava i nostri tre e noi gli
davamo tre dei loro in prigione a Torino. Ma non hanno sentito ragioni.
Noi siamo rimasti sconvolti e increduli perché
c’era questo accordo per lo scambio.
È andata a finire invece tragicamente. Questa è
la parola data dai fascisti.
Gian Battista, il più giovane, ha cercato di
scappare. Ogni volta che andiamo lì per la commemorazione e rifaccio
tutto il percorso, vedo che è corso per almeno settanta/ottanta metri,
sbalordendo tutti dopo due giorni di ogni sorta di sevizie che gli avevano
fatto.. È scappato di qua, andato al fondo lì, ha girato là, è venuto di nuovo
qua, poi la strada finisce e c'è un passaggio, un arco un po' lungo che si
passa sotto e c'è un portone. Il portone era sempre lasciato aperto ma si vede
che, sentendo gli spari di quelli che arrivavano dai rastrellamenti della zona,
qualcuno l'ha chiuso per paura. Lui quando ha trovato il portone chiuso si è
messo con forza a spingerlo… ma l'hanno preso per i capelli, portato via e
portato là dove c’erano già i due compagni per terra e hanno così ancora
ammazzato lui lì.
Quasi, quasi si salvava… Ma non ce l’ha
fatta.
16. L’ultima
cena
Mi sono interessato a lui perché
l'abbiamo preso il giorno 8 marzo del ‘45. Verso mezzanotte siamo arrivati lì,
sotto una borgata di Cisterna. Avevamo una decina di prigionieri nelle nostre
mani ed il nostro comando stava indagando su alcuni di loro. Al mattino le voci
han subito fatto il giro e così tutti quelli che sono arrivati da un paese
dell’Astigiano han puntato il dito contro di lui che era un omaccione grande
grosso, enorme. Lo accusavano di entrare nelle case, a lui non interessava
rubare, ma soltanto trovare una donna, poteva essere una ragazzina o una nonna,
per lui era uguale… violentava le donne. Una cosa dell'altro mondo. Quando
l'abbiamo preso noi, era nascosto là in un fosso, lì non c'era nessuno da poter
violentare…
Sentendo che la posizione di quel militare si stava aggravando sempre di più,
pensando al peggio, dati i gravi momenti in cui vivevamo, io mi sono messo
subito alla ricerca di un Sacerdote, nel caso ce ne fosse stato bisogno. Facevo
sempre così…
Quella volta lì è stata una cosa che
non riuscivo nemmeno a farmene una ragione… non sono riuscito a trovarlo, è
stata l'unica volta che non sono riuscito.
Mi ha detto poi il mio amico Don
Carlo: - E’ stata una grazia del Signore perché se fosse andato un
sacerdote, lui non lo avrebbe nemmeno lasciato entrare in quella cantina in cui
era, invece con te è stata un'altra cosa, lui ha potuto pregare e dirti diverse
cose, così.
Rientrando alla sera
nell’accampamento per prima cosa sono andato a chiedere ai nostri Comandanti
quali erano le decisioni prese nei confronti del militare. Anche se non me
l’hanno detto chiaro, ho capito subito che era stato giudicato colpevole e che
la mattina seguente sarebbe stato fucilato.
Quella notizia è stata per me una
doccia fredda, non mi sembrava possibile l’idea di poter eliminare a sangue
freddo una persona, anche se colpevole di gravi atrocità, ma me ne feci una
ragione pensando che diversi nostri compagni completamente innocenti non
avevano avuto nemmeno quella specie di processo…Inoltre bisognava comprendere
che eravamo in guerra e si sa ... la guerra è quella che è.
Io, a quel punto, avevo la
speranza di poter fare qualcosa per lui, non si poteva lasciar morire una
persona così, senza dargli un aiuto cristiano…Ho pensato che potevo tenergli
compagnia…Sono andato in alcune case di contadini che mi hanno dato una grossa
pagnotta di pane, un pezzo di formaggio ed un pezzo di salame, dal nostro
deposito ho preso una gavetta di vino e ho trovato qualche sigaretta dai
miei compagni. Poi sono entrato nella cantina dove lui era prigioniero.
Lui mi ha chiesto perché ero andato da lui con quelle cose,
dicendomi: - Allora questa è la mia ultima cena? Io gli ho
risposto che ero andato lì a trovarlo, non per quella cosa che lui
pensava. Ma che essendo in guerra tutto poteva succedere, a lui come a me. Lui
ha mangiato con appetito…era grande e grosso. Io pensavo a come fare per
introdurre il discorso religioso…gli ho detto che stavamo vivendo periodi
brutti, della guerra, che poteva capitare di tutto, che dovevamo tenerci pronti
e metterci nelle mani del Padre Nostro. Ma lui non mi ascoltava. Sono andato
avanti un bel po’, ma poi lui si è messo a gridare: - Basta, queste cose
tientele per te… io non credo alle fandonie che dicono i preti solo per far
stare buona la gente. Gridava, si alzava in piedi, poi sbatteva i pugni
sulla terra battuta che c’era in quella cantina
Io mi sono detto: - Oramai la
mia missione è finita qua, non riesco nemmeno a calmarlo, niente… Ma in un
angolo là mi son visto come un cerchio, una luce sfolgorante proprio… guardavo,
ma lui non la vedeva. Ne è uscito fuori il volto di una donna. Io ho persino
pensato: - Sarà la Madonna… E mi dice: - Parlagli di sua mamma,
di sua mamma, di sua mamma. Me lo dice tre volte, poi scompare. Allora io
gli ho detto: - Guardiamoci bene in faccia, viviamo in un momento, diciamo
così, gravissimo, può succedere a te come può succedere a me e quindi il nostro
pensiero va alle nostre mamme che han fatto tanti sacrifici. Lui ha emesso
un grido enorme: - Tu non dovevi menzionare mia mamma, perché mia mamma è
stata una santa, ero io un grande delinquente, ero la macchia della famiglia,
la pecora nera della famiglia e mia mamma l'ho fatta piangere tante volte. Poi
sbattevo la porta, andavo via e quando rientravo lei era di nuovo con le mani
per proteggermi, per perdonarmi… Poi poco per volta si è calmato e mi ha
detto che lui aveva fatto tanto male nella sua vita, ma che il ricordo di sua
mamma gli era sempre rimasto nel cuore, che voleva chiederle perdono.
Al che io ho detto: - Diciamo qualche preghiera. E lui mi ha risposto: -
Mi vergogno, non le so più, le ho dimenticato tutte. E io: - Bene, io
le dico, tu le ripeti. E’ stata una cosa… perché sembra facile, ma io
sapevo che ogni volta che passava un minuto era uno in meno che viveva e allora
siamo andati avanti un po'. Dall' Ave Maria andavamo a finire nel Padre Nostro,
dal Padre Nostro andavamo a finire nell’Io Credo… un pasticcio così. Ma non fa
niente, abbiamo pregato venti minuti, mezz'ora, non so più, ma un bel po'; poi ci
siamo abbracciati e lui piangeva. Le sue lacrime scendevano giù lungo la mia
faccia, è stato proprio un momento commovente. Mi ha preso per le mani così, mi
ha detto: - Stammi vicino. - Sta’ tranquillo, Io resterò con te fino
alla fine. Forse non gli avrò nemmeno detto “ la fine” per non spaventarlo,
ma lui oramai aveva già capito tutto, era molto intelligente.
Poi ci siamo quasi addormentati.
Poi saranno state le 4 del mattino, le 4 e mezzo, adesso non so più, abbiamo
sentito dei passi con gli scarponi e lui mi dice: - Vengono qua per me? E
mi prende così nel braccio. Due miei compagni partigiani sono entrati, e
lui mi ha chiesto: - E’ l’ora? Allora mi ha abbracciato di nuovo,
ora gli era tutto chiaro, ma era tranquillo, mi ha baciato e poi mi ha detto: -
Ricordati sempre di me. E io gli ho risposto: -Sta’ tranquillo. Mi
ricordo ancora giorno dopo giorno di quella persona… È stata un'esperienza
particolare, una cosa commoventissima…
Oltretutto, visto che era grande e grosso…se avesse voluto,
poteva anche tentare la fuga, togliermi l’arma. Ma non l’ha fatto.
17. Non erano tutti uguali
Era una
persona delicatissima, di lui ho questo ricordo.
Diceva: “Mi
mandavano a Torino, da un posto all'altro a fare le commissioni che servivano.
Con una mano finta nascosta con un guanto, un guanto nero. Sì che copriva, ma
si vedeva che ero mutilato da una mano”.
Nei suoi ricorrenti viaggi a Torino andava
nei posti più stravaganti che ci potessero essere. Portandosi dietro, se fosse
servita, la documentazione che aveva perso la mano, mi sembra forse in Russia.
Quando era insieme alla Brigata di Gino
Cattaneo avevano preso un tedesco. Un tedesco molto alto, proprio ben piantato,
un bel ragazzo. Si sono chiesti: “Chissà vestito da borghese come starà
meglio”. Così gli hanno trovato un paio di pantaloni, una camicia. Oh, che
splendore. Sapeva leggere l'italiano, leggeva il giornale in mezzo ai boschi là
dove eravamo accampati. Noi eravamo dislocati un po' più in qua.
Ma un bel giorno: “Dov'è? Dov'è? Dov'è?”.
Non l'han più trovato, lui era fuggito.
Questo monco, non so più come lo chiamavano
dato che non era con noi, un giorno era a Torino per le sue pratiche e passando
in via Montegrappa, c’era una caserma.
Ha visto che c'era un gruppo di tedeschi lì,
ma a lui nessuno diceva niente con quella mano che ostentava proprio bene. Ma,
ad un certo punto, si sente chiamare: “Partigiano, partigiano!!”. E lui: “Non
respiravo più, camminavo con gli occhi chiusi, adesso mi ammazzano qua…andavo
avanti e non sapevo dove mettevo i piedi. Se ci fosse stato un burrone, io ci
andavo dentro senza accorgermi”. E quello lì gli corre dietro… lo prende e
quando gli mette la mano sulla spalla, lui era convinto che lo volesse
acciuffare. “Non ho più visto niente, non ho più capito niente. Lui continuava
a parlarmi e io non lo vedevo talmente si era annebbiata la vista”.
“Ma non mi
conosci? Non ti ricordi più quando eravamo nei boschi?”.
“Ah, già, ma
sei tu?”.
“Sì, sì, sono
io…”. E intanto il gruppo di tedeschi li guardavano tranquilli. Nessuno gli ha
detto niente, niente.
“Andiamo a prendere qualcosa?”.
“No, perché c'ho
premura, devo andare a prendere la corriera. Devo andare a prendere la corriera
e devo andare a Canale”.
“Va bene, va
bene. Salutami Gino, salutami tutti i compagni là”. L'ha abbracciato, si sono
salutati.
Forse era uno di quei tedeschi che han fatto
la guerra perché erano obbligati a farla, non è che fosse un convinto nazista,
probabilmente come ce n'erano altri, non è che lo fossero tutti….
18. Vacanze forzate ai Piloni - Sei tedeschi in pensione
Quando sono stati catturati dovevamo esserci anche noi
della Brigata Canale, ma poi li ha presi Gino e li ha portati a noi.
Ce li ha portati il 17 o 18 di
aprile del ‘44. Li abbiamo accampati nella terza cappella della Via
Crucis.
Li credevamo, al solito, aizzati contro gli italiani. Ma
questi no, erano tutti vecchietti… non erano pericolosi.
Erano liberi di muoversi come
volevano, non hanno mai dato disturbo, mai, mai.
Li sorvegliava un partigiano solo, tanto di giorno come di notte.
Per la pipì si aggiustavano, qualunque punto andava bene e per la popò c’era
una riva lì vicino.
Noi intanto “vivevamo” lì vicino in una stalla, per
mangiare, dormire….
Li abbiamo tenuti qui fino a quando siamo andati in località Saretto. Non li abbiamo scambiati… li abbiamo rimandati al
proprietario (Cattaneo).
Allo stesso prezzo che li avevamo pagati. Senza chiedere niente.
“Teneteli voi, tutto quello che vi danno tenetevelo pure…”.
Ai Piloni siamo arrivati a metà di Aprile ’44
restando fino a fine mese Non potevi restare tanto nello stesso posto. Ci siamo
così trasferiti al Saretto, poi scesi giù ai
castagnun, poi alla Cascina Bianca nella zona di Diano d’Alba.











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